VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Quinta ed ultima parte)
Ma torniamo al re che, il 1° giugno 1940, a dieci giorni dalla nostra entrata in guerra, appare a Ciano rassegnato, ma non disperato. Egli, infatti, malgrado i trionfali successi dei nazisti, spera in un eventuale intervento in guerra degli Stati Uniti, perché lui conosce il potenziale economico e politico degli USA, mostrando con ciò una lucidità e una lungimiranza che difetta in tanti personaggi interventisti, politici e militari.
Nel giugno 1940, moltissimi scommettono che la guerra stia per chiudersi prestissimo a favore della Germania. Una partita senza gioco, fra professionisti della guerra e dilettanti che non sanno neppure dove si mette l’elmetto. Una passeggiata; una galoppata; una marcia trionfale! E tuttavia, «S’illudono coloro che parlano di guerra breve e facile», va ripetendo quel piccolo re, mentre Hitler s’illude di aver realizzato vittoriosamente la sua Blitzkrieg, la sua guerra-lampo, e Mussolini ci crede, ed ha premura di saltare sul carro del vincitore nazista, prima che questa dannata guerra-lampo finisca troppo presto.
Tra l’altro, Vittorio Emanuele III ha il polso della situazione italiana, e sa che il popolo non ha alcun entusiasmo per questa guerra: «Udienza dal Re – scrive Ciano – Approva la formula ch'io gli sottopongo. Ormai è rassegnato, niente più che rassegnato, all'idea della guerra. Crede che in realtà Francia e Inghilterra abbiano incassato colpi tremendamente duri ma attribuisce – ed ha ragione – molta importanza all'eventuale intervento americano. Sente che il Paese va in guerra senza entusiasmo: c'è oggi una propaganda interventista, ma non c'è minimamente quello slancio che ci fu nel 1915. “S'illudono coloro che parlano di guerra breve e facile. Ci sono ancora molte incognite e l'orizzonte è molto diverso da quello del maggio del '15”. Così conclude il Re».
Il 10 giugno 1940, il duce si affaccia al balcone di Palazzo Venezia (allora sede del Capo del Governo) e annuncia la dichiarazione di guerra «contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell'Occidente».
E intanto Renato Rascel va cantando È arrivata la bufera, è arrivato il temporale…
Nello stesso 10 giugno 1940, a Palazzo Chigi (allora sede del Ministero degli Esteri), il ministro Ciano convoca gli ambasciatori di Francia e di Gran Bretagna, per consegnare loro la dichiarazione di guerra.
Sono momenti dolorosi, che non lasciano insensibili né il nostro Ministro degli Esteri, Galeazzo Ciano, né l’ambasciatore francese, André François-Poncet, né l’ambasciatore britannico, sir Percy Lyham Loraine.
Al di là della vicenda storica che li ha collocati su fronti contrapposti, i tre si stimano sia sul piano umano sia su quello diplomatico. Così annota Ciano: «Per primo ho ricevuto Poncet, che cercava di non tradire la sua emozione. Gli ho detto: "Probabilmente avete già compreso le ragioni della mia chiamata". Ha risposto: "Benché io sia poco intelligente, questa volta ho capito". Ma ho sorriso per un istante solo. Dopo aver ascoltato la dichiarazione di guerra ha replicato: "È un colpo di pugnale ad un uomo in terra. Vi ringrazio comunque di usare un guanto di velluto". Ha continuato dicendo che lui aveva previsto tutto ciò da due anni, e non aveva più sperato di evitarlo dopo la firma del Patto d'Acciaio. Non si rassegnava a considerarmi un nemico, né poteva considerare tale nessun italiano. Comunque, poiché per l'avvenire bisognava ritrovare una formula di vita europea, augurava che tra l'Italia e Francia non venisse scavato un solco incolmabile. "I tedeschi sono padroni duri. Ve ne accorgerete anche voi". Non ho mai risposto. Non mi sembrava il momento di polemizzare. "Non vi fate ammazzare" ha concluso accennando alla mia uniforme di aviatore, e mi ha stretto la mano».
«Ne creusez pas de fossés trop profonds: n’oubliez pas que les allemands sont des maîtres durs». Non scavate fossati troppo profondi tra Italia e Francia. Non dimenticate che i tedeschi sono padroni duri – ammonisce il francese André François-Poncet. E l’ammonimento dovrebbe valere per sempre, anche quando i tedeschi non indossano la divisa.
Poi è il turno dell’ambasciatore inglese, più british e meno caloroso di noi latini: «Più laconico e imperturbabile, Sir Percy Loraine. Ha accolto la comunicazione senza batter ciglio, né impallidire. Si è limitato a scrivere la formula esatta da me usata ed ha chiesto se doveva considerarla un preavviso o la vera e propria dichiarazione di guerra. Saputo che era tale, si è ritirato con dignità e cortesia. Sulla porta, ci siamo scambiati una lunga e cordiale stretta di mano».
Comincia ora la tragedia italiana, che non risparmierà nessuno, dai vertici alla base, dal re e dal duce al popolo italiano, dai militari ai civili, da quelli che hanno creduto negli ideali del ventennio a quelli che hanno creduto negli ideali opposti.
Mussolini ha calcolato che la guerra durerà quattro-cinque mesi. Ed ha sbagliato i suoi calcoli! Basti pensare che a dieci giorni dall’entrata in guerra, Ciano può annotare lo stato di umiliante depressione in cui precipita il duce, per una guerra-lampo italiana che, nella dura realtà dei fatti, non ha nulla a che vedere con la Blitzkrieg tedesca.
«Mussolini è molto umiliato dal fatto che le nostre truppe non hanno fatto un passo avanti: anche oggi non sono riusciti a passare e si sono fermati di fronte alla prima opera fortificata francese che ha reagito. In Libia, un generale si è fatto prendere prigioniero. Mussolini se la prende col popolo italiano: "È la materia che mi manca. Anche Michelangelo aveva bisogno del marmo per fare le sue statue. Se avesse avuto soltanto dell'argilla, sarebbe stato soltanto un ceramista". "Un popolo che è stato per sedici secoli incudine, non può, in pochi anni, diventare martello"».
Il duce “ceramista” se la prende con gli italiani, che non collaborano, perché non sono marmorei.
Purtroppo, per tutta la durata della guerra, il Mussolini-Michelangelo passerà da un’umiliazione all’altra. Ed è fin troppo noto tutto il disastroso svolgimento delle operazioni belliche italiane.
Senza dubbio, nel nostro esercito ci furono fulgidi atti di eroismo di singoli individui o di singole unità, ma, per il resto, fra i capi militari furono rari gli esempi di serietà, di polso, di preparazione e di visione strategica. E quando qualche generale aveva una di queste qualità, o non osava dire la verità al duce o, se parlava, veniva emarginato.
Intendiamoci, ben prima della seconda guerra mondiale era nota in Italia e all’estero la fragile struttura delle forze armate italiane. La guerra di Etiopia e poi quella di Spagna, al di là delle scene trionfali, avevano portato al collasso un’Italia generalmente povera e, per giunta, povera di materie prime.
Gli anni Trenta furono tutto un “fare la voce grossa” e tutto un bluff, senza avere in realtà quel gioco più alto che si voleva far credere.
In questa commedia degli inganni finì per crederci qualcuno all’estero, e addirittura finì per crederci lo stesso Mussolini.
A tal proposito non dimentichiamo che, alla vigilia della guerra, l’Italia imperiale e fascista presentò alla Germania una “lista dei fabbisogni” talmente pesante da uccidere un toro, se il povero quadrupede avesse saputo leggere.
Non dimentichiamo, inoltre, la pessima qualità umana e professionale, tranne qualche eccezione, degli alti comandi militari, che non tralasciarono di abbandonarsi a reciproche gelosie, a carrierismi o a meschinità.
Esemplare è quello che riporta Ciano il 20 dicembre 1940, cioè a soli sette mesi dall’inizio della guerra: «Le gelosie tra generali sono peggio di quelle tra donne. Bisogna leggere le telefonate del generale Ubaldo Soddu al generale Antonio Sorice; li demolisce tutti. Il generale Geloso è rammollito, il generale Perugi un disastro, il generale Trionfi un fallimento: oggi per caso dice bene del generale Vercellino e si esprime testualmente così: “Povero Vercellino! È tanto caro. È venuto a vedermi e ha pianto”».
A volere scendere ancora più in basso, basta vedere chi è il generale Ubaldo Soddu, estensore di questi severi e sarcastici giudizi sui colleghi generali rammolliti, incapaci e piagnucoloni. Ebbene, questo generale Soddu – che ognuno immagina intrepido al fronte fra il rombo del cannone e il garrire delle bandiere al vento – in verità passava le sue serate di guerra … a comporre musica per film.
Da corte marziale! E invece Mussolini lo sostituirà, senza colpo ferire, col generale Ugo Cavallero, forse peggiore del primo, di sicuro più politico e più sottomesso.
Ma andiamo un attimo al fronte. In Libia, a metà dicembre 1940, ossia nei primi mesi di guerra, ben cinque divisioni italiane si fanno annientare dagli inglesi nel giro di due giorni (leggasi: cinque divisioni in due giorni!). E che fine hanno fatto i capi di questo esercito polverizzato dagli inglesi? Un generale morto; e cinque generali si arrendono e si fanno prendere prigionieri.
Sicché il duce esce fuori con un commento penoso, su una situazione altrettanto penosa: «Cinque generali prigionieri e uno morto. Questa è la proporzione tra gli italiani che hanno caratteristiche militari e quelli che non le hanno. Nell’avvenire faremo un esercito di professionisti, scremandoli tra dieci o dodici milioni di italiani: quelli della Valle del Po e in parte dell'Italia centrale. Tutti gli altri fabbricheranno armi per l’aristocrazia guerriera».
«Nell’avvenire faremo un esercito…». Purtroppo, nell’avvenire ci sarà solo un’immane catastrofe!
In questo tragico contesto, registriamo un altro penoso esempio di un “eroe nazionale”: il Maresciallo Rodolfo Graziani che, avendo perso il controllo della situazione in Libia (e soprattutto il controllo di sé), invia alla moglie una lettera, con le disposizioni testamentarie, nella quale si dice che «con le unghie non si possono spezzare le corazze». E la moglie, la marchesa Graziani, sconvolta e in lacrime, completa l’opera teatrale il 15 dicembre 1940, andando da Ciano a mostrare la lettera che il marito le ha inviato dalla Libia in sfacelo.
Per tutto il periodo della guerra, troppi generali riempiranno di chiacchiere, di lacrime e di fumo la testa di Mussolini, il quale, deluso e sconfortato, fin dai primi mesi di guerra non crede più ai loro resoconti e alle loro assicurazioni di vittorie a tavolino. Insomma, già nel Natale 1940, quei grandi generali hanno messo a terra il morale di quello stesso duce che, alcuni mesi prima, al balcone di Palazzo Venezia, con voce e postura da superuomo, aveva lanciato il motto: Vincere e vinceremo!
Dopo aver sostituito il generale Soddu (quello che, al fronte, la sera si dilettava a comporre musica per film!) con il generale Cavallero, il duce, ancor più deluso e prostrato di prima, deve confessare: «Sono diventato come gli osti di campagna che dipingono un gallo sul muro e sotto vi scrivono: quando questo gallo canterà, credenza si farà. Anch'io darò credito ai militari, quando con un fatto proveranno che la situazione è cambiata».
Alla Vigilia del Natale 1940, il primo Natale in armi, scende la neve su Roma. Da una finestra di Palazzo Venezia, il duce guarda contento il suggestivo spettacolo dell’Urbe accarezzata dai fiocchi di neve.
È contento, il duce, perché «questa neve e questo freddo vanno benissimo. Così muoiono le mezze cartucce: e si migliora questa mediocre razza italiana. Una delle principali ragioni per cui ho voluto il rimboschimento dell'Appennino è stata per rendere più fredda e nevosa l'Italia».
Ecco, èureka! In mezzo a cotanta tempesta di disorganizzazione, di irresponsabilità politico-militare e di ignobili cialtronerie, abbiamo trovato l’unico, vero, grande colpevole: il popolo italiano; il povero soldatino mandato a morire; le famiglie che soffrono il freddo e la fame.
In quel tempo, Vittorio Emanuele III non può dormire, non già per il freddo o la fame, bensì per la paura che vincano i tedeschi, e la vendetta nazista si abbatta pesante e spietata sulla sua persona, sulla sua famiglia e sull’Italia tutta.
Però, quando entrerà in guerra la superpotenza americana e quando il sogno tedesco della guerra-lampo svanirà lentamente su tutti i fronti, allora quel piccolo re comprenderà che si stanno aprendo margini per favorire, con estrema prudenza, la sostituzione di Mussolini, lo sganciamento dal soffocante rapporto con la Germania e il conseguimento della pace.
Fra i mille propositi, i mille progetti, e le mille velleità che sorgono in quegli anni per portare l’Italia, più o meno onorevolmente, fuori dal conflitto, spiccano due importanti iniziative: quella del generale Vittorio Ambrosio e quella del gerarca fascista Dino Grandi. Le due iniziative sono autonome e parallele, però portano entrambe a Vittorio Emanuele III.
Ma andiamo per ordine. Il 2 febbraio 1943, destituito l’inaffidabile generale Cavallero, al suo posto viene nominato, come capo di Stato Maggiore Generale, Vittorio Ambrosio, che era già capo di Stato Maggiore dell’esercito.
Il generale Vittorio Ambrosio non fa il musicista; ed è fatto di altra pasta rispetto a tanti suoi discutibilissimi colleghi e predecessori. Immediatamente si circonda di uomini di sua fiducia, ma che soprattutto sono uomini di fiducia tout court. Ad esempio, al suo precedente posto di capo di Stato Maggiore dell’esercito egli indica il generale Mario Roatta; e riesce a piazzare il generale Antonio Sorice, non benvisto dai fascisti, come sottosegretario al Ministero della Guerra.
Al suo fianco lavorano uomini fidati come il generale Giuseppe Castellano (colui che firmerà l’armistizio a Cassibile) e il generale Giacomo Carboni che, già nel febbraio 1940, prima della nostra entrata in guerra, aveva avuto il coraggio e l’onestà di presentare un rapporto per nulla favorevole alla Germania, meritandosi una violenta reazione di Mussolini, che così lo investì: «Ho letto il vostro rapporto. È il rapporto di un uomo che detesta i tedeschi e non li conosce. Non concordo con nessuna delle vostre conclusioni».
E ben gli sta al generale Carboni! Dopo vent’anni di regime, il nostro generale non ha capito che al Capo, e anche ai capetti, bisogna dire solo quello che gradiscono. E non bisogna pensare con la propria testa, ma con quella del Capo o dei capetti. E questo succede con tutti i capi e capetti di qualsiasi colore e in qualsiasi centro di potere.
Ma torniamo al generale Ambrosio, il quale disegna un piano che dovrebbe portare 1. allo sganciamento dell’Italia dal vassallaggio con i tedeschi; 2. alla destituzione e all’arresto di Mussolini; 3. alla nomina del Maresciallo Badoglio, o in subordine del Maresciallo Enrico Caviglia, come Capo del Governo.
Naturalmente, questo piano di Ambrosio è conosciuto e prudentemente incoraggiato dal re (Badoglio e Caviglia sono uomini del re!), con cui non si spezza mai il filo diretto, assicurato dal conte Acquarone, Ministro della Real Casa.
Andiamo ora al piano preparato da Dino Grandi, uno dei fascisti più intelligenti (anche il fascismo ebbe non poche persone intelligenti!), che con Mussolini rivaleggiò sempre, e sempre gli fece ombra. Era stato, Dino Grandi, uno dei migliori ministri degli esteri che l’Italia avesse avuto sino ad allora. Tra l’altro, con la scusa della fascistizzazione del ministero, egli aprì la carriera diplomatica a homines novi, giovani e meritevoli, che intaccheranno il vecchio e ammuffito privilegio dei figli della nobiltà sul ministero degli esteri. Perciò si può ben dire che la fascistizzazione operata da Grandi su quel ministero fu, in verità, una “grandizzazione”.
Da giovane, Dino Grandi fu una testa calda, ma fu sempre una testa pensante. Nato e cresciuto in quella Emilia-Romagna che al fascismo diede un Benito Mussolini o un Italo Balbo, egli rivelò man mano un’intelligenza politica, un’apertura culturale e un tatto diplomatico, che lo porteranno ad essere un interlocutore molto stimato in campo internazionale, soprattutto nell’area franco-britannica.
Ovviamente, la sua forte personalità e la sua statura internazionale lo portarono spesso a scontrarsi con i tanti gerarchi acefali o microcefali, ma fedelissimi esecutori delle direttive del duce. Ad esempio, leggendario era il suo disprezzo per quel “pover’uomo” di Achille Starace, che era il tipico modello di esecutore zelante e stupido delle direttive del duce.
E quando le critiche di Grandi raggiunsero lo zenit, Mussolini fu costretto ad ammettere che Starace era «un cretino, sì, ma obbediente».
Per contro, Dino Grandi era uno intelligente, sì, ma disobbediente.
Era un camerata che dava fastidio e faceva ombra a quel duce, che aveva sempre ragione. Non a caso Mussolini lo accusava di “essere andato a letto” con la Francia e con la Gran Bretagna, per la sua politica vicina agli inglesi e ai francesi. Perciò, nel 1932, il duce lo cacciò in malo modo dal ministero degli esteri e lo mandò in esilio come ambasciatore a Londra.
Allontanato Grandi, il ministero degli esteri passò in mano a Mussolini, che eseguì sbrigativamente lo sfratto con un semplice bigliettino, dove Grandi aveva modo di leggere tra l’altro: «Domattina alle otto verrò a prendere le consegne».
E prese le redini della politica estera italiana il duce, che man mano si allontanerà dalla Francia e dalla Gran Bretagna, per poi cadere, dopo il 1933, nell’abbraccio (mortale) con Hitler.
Tornando al 1943 e al piano di Dino Grandi per mettere fine alla guerra, bisogna dire che da tempo, insieme a Giuseppe Bottai e Galeazzo Ciano, Grandi riteneva che, separando il destino del fascismo da quello di Mussolini, si doveva pervenire alla destituzione del duce, per evitare la disfatta militare e per cercare la pace con gli anglo-americani.
Per la realizzazione del piano, Dino Grandi ha bisogno della copertura politica del re. E quindi, il 4 giugno 1943, nel corso di un’udienza privata col sovrano, Grandi gli espone le sue idee. Vittorio Emanuele III gli fa capire prudentemente che non è contrario alla destituzione di Mussolini, ma che, per dovere costituzionale e per opportunità politica, egli attende che il Parlamento o per lo meno il Gran Consiglio gli diano un segnale con una decisione formale e pubblica.
Il 21 luglio, Grandi si reca nella sede del partito fascista; e qui apprende che Mussolini, dopo essere tornato dal catastrofico incontro di Feltre con Hitler, aveva accolto la richiesta di convocazione del Gran Consiglio del Fascismo e aveva fissato la data per sabato 24 luglio alle ore 17.
È l’appuntamento storico; è la grande occasione per mettere in gioco o la vita di Dino Grandi o le sorti di un’Italia in ginocchio. Nei tre giorni che rimangono, Grandi inizia a contattare precipitosamente i membri dell’assise e chiede il loro appoggio all’ordine del giorno che intende presentare.
Ad ogni modo, la mattina del 23 luglio, Grandi informa Mussolini del suo ordine del giorno e di cosa avrebbe detto. Il duce ascolta e non fa una piega. Due giocatori di poker si fronteggiano.
«Dissi a Mussolini tutto – scrive Grandi nel suo Diario – gli anticipai quello che avrei detto e fatto in Gran Consiglio, lo scongiurai di deporre spontaneamente nelle mani del Re tutti i poteri civili e militari come unica alternativa possibile per una soluzione della guerra e per il ripristino integrale della Costituzione. […] Mi attendevo una reazione violenta da parte di Mussolini. Questa non venne. Egli non mi aveva interrotto, aveva continuato a guardarmi fisso e cupo giocherellando nervosamente con la matita. Dopo di che il Duce, dopo aver respinto le mie richieste, mi congedò con un arrivederci a posdomani in Gran Consiglio […] Uscii triste da Palazzo Venezia. Non restava che andare diritti in fondo».
Il giorno prima, cioè il 22 luglio 1943, c’era stato un incontro fra il re e il duce. Purtroppo il colloquio non è conosciuto, ma possiamo ipotizzare che sia stato molto importante ed influente in riferimento agli eventi che porteranno al 25 luglio.
Probabilmente in quel colloquio si creò un intreccio di illusioni, di speranze e di timori.
C’è da credere che, con lo sbarco alleato e il crollo dell’esercito italiano in Sicilia, con la paura dei “nemici” angloamericani e degli “amici” tedeschi, i due avranno sostenuto un confronto dove il re prende il sopravvento su un Mussolini stanco e sconfitto.
Con molta probabilità, quest’ultimo avrà parlato al re dei sondaggi che il gerarca fascista Giuseppe Bastianini (filoinglese, nel 1939 era stato ambasciatore a Londra) stava cautamente e lentamente effettuando nei confronti degli alleati angloamericani; e che pertanto si poteva pensare ragionevolmente a un disimpegno italiano dalla guerra a partire dal 15 settembre 1943.
Questa ipotesi sembra mettere momentaneamente d’accordo il re e il duce. Il primo, pur non trascurando in cuor suo altre opzioni, per il momento si accontenta del fatto che Mussolini ormai propenda per la fine della guerra. Il duce, a sua volta, incassa la non ostilità del re al suo piano di disimpegno dalla guerra, e perciò va tranquillo alla seduta del Gran Consiglio del 24 aprile 1943. Insomma, secondo il duce, qualunque verdetto del Gran Consiglio sarà secondario e ininfluente, perché, senza l’appoggio di Vittorio Emanuele III, un eventuale colpo di mano contro di lui in Gran Consiglio è destinato a fallire.
In verità, se dovessimo pensare a un deluso in quel colloquio del 22 luglio, dovremmo pensare proprio al re, che da quell’incontro si aspettava di più. Si aspettava, cioè, la presentazione delle dimissioni da parte di Mussolini, e quindi la possibilità di una soluzione indolore e meno traumatica. In breve, è la stessa delusione provata da Grandi, quando si aspetta che Mussolini accetti di presentare le dimissioni.
In verità, sono stanchi tutti: moltissimi sono stanchi della guerra, di Mussolini e dei tedeschi; e Mussolini è ormai stanco di fare il duce-stuoino di Hitler e di sostenere il peso di una catastrofe che sta travolgendo l’Italia, il fascismo e la sua stessa persona.
Tra l’altro, il re è a conoscenza di due contrapposte iniziative politico-diplomatiche fasciste che, oltre all’iniziativa di Dino Grandi, spaccano il campo fascista e oggettivamente indeboliscono Mussolini. In altri termini, il re ben conosce sia i tentativi del fascista Bastianini verso gli anglo-americani, sia i disegni opposti del fascistissimo Farinacci verso i tedeschi, per organizzare un colpo di Stato che, defenestrando il re e il duce, avrebbe dovuto portare l’Italia sotto il diretto controllo dei nazisti.
E questa paralizzante contrapposizione nel campo fascista non solo costringe il re a percorrere altre vie di soluzione, ma addirittura lo sprona ad affrettare i tempi, per paura di trovarsi prigioniero nelle mani di Farinacci e dei nazisti.
In tutto questo intreccio, è ovvio che tutti sanno qualcosa di tutto; e tutti lavorano nell’ombra: i tedeschi, gli angloamericani, il Vaticano.
Ad ogni modo, per una migliore comprensione dello svolgimento dei fatti che portarono al 25 luglio 1943 e alla caduta di Mussolini, bisogna tener presente l’incontro di Feltre del 19 luglio 1943, dove, pochi giorni dopo lo sbarco anglo-americano in Sicilia, Mussolini, Bastianini e il generale Ambrosio incontrano Hitler e i generali dell’Oberkommando der Wehrmacht (l’Alto comando delle forze armate tedesche).
Il generale Vittorio Ambrosio, a differenza dei suoi predecessori, si prepara meticolosamente per l'incontro. E il giorno prima parla chiaramente a Mussolini, dicendogli che il suo [del duce] dovere consiste nell’uscire dal conflitto nei prossimi 15 giorni.
I tedeschi, dal canto loro, hanno perduto l’ultimo brandello di fiducia negli italiani e vogliono solo occupare militarmente il prima possibile l'Italia settentrionale e centrale, lasciando all’esercito italiano il compito di fronteggiare e ritardare l’avanzata degli Alleati. Per di più, essi propongono che il Comando Supremo dell’Asse nella Penisola sia assunto da un generale tedesco.
Le prime due ore dell’incontro sono occupate dal consueto monologo di Hitler, che addossa agli italiani la colpa della loro fiacca prestazione militare e chiede di applicare misure severissime. Mussolini, umiliato e sottomesso, non apre bocca.
Ad appesantire il già plumbeo cielo dell’incontro, avviene un fatto grave e inaspettato: la riunione è improvvisamente interrotta, quando un consigliere italiano entra nella sala e riferisce a Mussolini che, proprio in quel momento, gli Alleati stanno per la prima volta bombardando pesantemente Roma.
Durante la pausa del pranzo, Ambrosio e Bastianini pressano il Duce per dire al Führer che è necessaria una soluzione politica alla guerra. Ma Mussolini sa solo dire ai suoi uomini che per mesi è stato tormentato dai dubbi se abbandonare l’alleanza con la Germania o continuare la guerra a fianco di Hitler. Troppo poco, troppo scontato.
In verità, egli ormai prova soggezione in presenza del Führer e, non potendo superare il proprio senso d’inferiorità, non ha il coraggio di parlare francamente con Hitler a tu per tu.
Così, dopo il pranzo, Mussolini interrompe l’incontro, che sarebbe dovuto durare tre giorni, perché non riesce più a trovare le forze, fisiche e psichiche, per proseguire i colloqui. La delegazione torna quindi a Belluno via treno e, dopo aver salutato Hitler, Mussolini torna a Roma.
Dopo il fallimento dell’incontro di Feltre e il primo bombardamento di Roma, la crisi subisce un’accelerazione. Il giorno dopo, ossia il 20 luglio, Mussolini incontra due volte il generale Ambrosio. Durante la seconda visita, di sera, il duce gli comunica di aver deciso di scrivere a Hitler, confessando la necessità dell’Italia di abbandonare l’alleanza con la Germania.
Ancora furente per l'opportunità persa nel recente incontro di Feltre, il generale Ambrosio, indignato, gli offre le proprie dimissioni, che Mussolini rigetta. In verità, per Ambrosio, Mussolini è ormai diventato inutile. Pertanto decide di attuare il piano per realizzare il putsch.
Al contempo e in parallelo, Dino Grandi e Luigi Federzoni fanno dei sondaggi per scoprire quanti, tra i 27 membri del Gran Consiglio, avrebbero votato il documento Grandi. Stimano che 4 sarebbero a favore, 7 contrari e 16 indecisi.
Il problema di Grandi è che non può rivelare agli altri le concrete conseguenze dell'approvazione del suo ordine del giorno: ossia la rimozione di Mussolini, la fine del Partito Fascista, e l’inizio della guerra contro la Germania. In verità, solo un paio di gerarchi possiedono l’intelligenza politica per comprenderne la portata. Gli altri ancora sperano che il duce, che aveva sempre deciso per loro in tutto il ventennio, avrebbe prodotto un miracolo.
Senza dilungarci sullo svolgimento della seduta del Gran Consiglio e sull’approvazione a maggioranza dell’ordine del giorno di Grandi, registriamo soltanto il fatto che si mettono in moto alcuni avvenimenti non previsti da parecchi degli stessi protagonisti.
Ovviamente, col risultato del Gran Consiglio che mette in minoranza il duce, il re si trova improvvisamente spianata la strada per attuare il piano del generale Ambrosio, che prevede l’arresto di Mussolini.
Tra l’altro, il duce va a comunicare al re l’esito della riunione, nella speranza che Vittorio Emanuele respinga la decisione del Gran Consiglio e gli conferisca un mandato vincolato, non certo per continuare la guerra, ma per avviare l’Italia fuori dal conflitto.
Com’è ben noto, le cose andranno diversamente. Vittorio Emanuele III, che ha preso fiato e fiducia, accoglie un Mussolini prostrato, non risparmiandogli qualche mortificazione e qualche punzecchiatura, come quando lo accoglie con un pesante «Caro Duce, l’Italia va in tocchi». Proprio ora, proprio lui, proprio il re, che non aveva mai voluto chiamarlo “duce”, e lo aveva sempre chiamato “eccellenza”, per mantenere le distanze con il fascismo!
Ad ogni modo, Mussolini esce da villa Savoia, saluta il re, ed entra a forza in una autoambulanza militare in mano ai carabinieri. Finisce così l’uomo politico che aveva dominato l’Italia per vent’anni. Quel che resta ormai di Mussolini è un uomo stanco, invecchiato e distrutto. E con la Repubblica di Salò? Con la Repubblica di Salò, non esisterà più Mussolini. Esisterà politicamente soltanto un sacco vuoto, che i nazisti terranno in piedi.
Enormi sono le responsabilità politiche e morali di Mussolini. Ma questa doverosa ammissione non deve nascondere le responsabilità politiche e morali di moltissimi italiani che, per vent’anni, lo seguirono, lo acclamarono, lo adularono, lo elevarono a semidio.
Sono stati tutti ingannati dal dittatore? Troppo facile e troppo comodo politicamente; e troppo turpe moralmente, scaricare tutto addosso a Mussolini.
Egli, barbaramente appeso a testa in giù a piazzale Loreto a Milano, chiamato a rispondere dell’abisso di sofferenza e di disonore in cui precipitò l’Italia, potrebbe rispondere a moltissimi italiani come quel demagogo di Firenze (di cui parla Giovanni Villani) rispose ai suoi compagni di esilio, che gli rinfacciavano di averli condotti alla sconfitta di Montaperti: – E voi, perché mi avete creduto?
Ma torniamo a villa Savoia, al momento dell’arresto di Mussolini, e leggiamo una pagina molto bella e interessante delle Memorie della regina Elena, moglie di Vittorio Emanuele III: «Eravamo in giardino. A me, [il re] non aveva ancora detto nulla. Quando un emozionato Acquarone ci raggiunse, e disse a mio marito “Il generale dei carabinieri desidera, prima dell’arresto di Mussolini, l’autorizzazione di Vostra Maestà”. Io restai di sasso. Mi venne poi da tremare, quando sentii mio marito rispondere “Va bene. Qualcuno deve prendersi la responsabilità. Me l’assumo io”. Poi salì la scalinata con il generale. Attraversavo l’atrio quando Mussolini arrivò. Andò incontro a mio marito. E mio marito gli disse “Caro Duce, l’Italia va in tocchi…”. Non lo aveva mai chiamato così, ma sempre “eccellenza”. Io nel frattempo salii al piano superiore, mentre la mia dama di compagnia, la Jaccarino, attardandosi nella saletta era rimasta giù e ormai non poteva più muoversi. Più tardi mi riferì tutto. Mi narrò che mio marito aveva perso le staffe e si era messo a urlare contro Mussolini, infine gli comunicò che lo destituiva e che al suo posto metteva Pietro Badoglio. Quando poi la Jaccarino mi raggiunse, dalla finestra di una sala, vedemmo mio marito tranquillo e sereno, che accompagnava, sulla scalinata della villa, Mussolini. Il colloquio era durato meno di venti minuti. Mussolini appariva invecchiato di vent’anni. Mio marito gli strinse la mano. L’altro mosse qualche passo nel giardino, ma fu fermato da un ufficiale dei carabinieri [il catanese Paolo Vigneri] seguito da soldati armati. Il dramma si era compiuto. Mi sentivo ribollire. Per poco non sbattei contro mio marito, che rientrava. “È fatta” disse piano, lui. “Se dovevate farlo arrestare” gli gridai a piena voce, indignata “questo doveva avvenire fuori casa nostra. Quel che avete fatto non è un gesto da sovrano”. Lui ripeté “Ormai è fatta” e cercò di prendermi sotto braccio, ma io mi allontanai di scatto da lui, “Non posso accettare un fatto del genere”, dissi, “mio padre non lo avrebbe mai fatto”. Poi andai a rinchiudermi nella mia camera».
Questa bella pagina non solo ci fornisce alcuni colori particolari del quadro d’azione, ma soprattutto ci rende la persona della regina Elena nella sua elevata statura morale, per nulla scalfita dalle pur tragiche vicende del momento. Una moglie, amatissima dal marito, che non esita a dare una lezione morale a un re il quale, nella terra di Machiavelli, deve però ragionare e agire in termini politici e non solo morali.
Un re che, col Machiavelli dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, potrebbe dire: «Dove si delibera al tutto della salute della patria, non vi si debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né d’ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né d’ignominioso».
In breve, dove si decide sulla salute della patria, sulla salvezza dello Stato, non c’è posto per considerazioni morali né sul giusto né sull’ingiusto.
Dopo il 25 luglio 1943, e dopo la nomina del Maresciallo Badoglio a Capo del Governo, torna alla ribalta il Capo di Stato Maggiore, generale Vittorio Ambrosio. Questi occupa un ruolo influente ed autonomo rispetto al Consiglio dei ministri. Infatti, egli fa parte del Consiglio della Corona, presieduto dal re, cui erano deputate le decisioni politiche più importanti. Di tale organismo fanno parte il Maresciallo Badoglio, e due uomini di Ambrosio: il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito generale Roatta, e il comandante dei servizi segreti Giacomo Carboni.
Sarà infatti il Consiglio della Corona, e non il governo, il 7 agosto 1943, ad approvare a maggioranza di due terzi, la decisione di uscire dalla guerra.
Nei giorni successivi, Ambrosio propone il generale Giuseppe Castellano (suo braccio destro) quale rappresentante italiano per le trattative di pace con gli anglo-americani. Le istruzioni che Ambrosio dà a Castellano, il 12 agosto 1943, sono di esporre la nostra situazione militare, ascoltare le intenzioni degli alleati e, si badi bene, dire che l’Italia non può sganciarsi dalla Germania senza l’aiuto militare degli anglo-americani.
Gli Alleati angloamericani, invece, richiederanno preliminarmente la resa incondizionata e la cessazione delle ostilità (poi formalizzate nell’Armistizio di Cassibile), e di rimandare di alcune settimane la sottoscrizione delle clausole più dettagliate della resa.
Sarà quest’atteggiamento duro e miope degli Alleati, che trascurano la presenza dell’esercito tedesco in Italia, uno degli elementi che contribuiranno al caos dell’8 settembre 1943.
Il 1º settembre 1943, si tiene una riunione allargata del Consiglio della Corona, cui partecipano il Maresciallo Badoglio, il Ministro degli Esteri Raffaele Guariglia, il Capo di Stato Maggiore Generale, Vittorio Ambrosio, il generale Castellano, il generale Roatta, il generale Carboni e il Ministro della Real Casa Acquarone, in rappresentanza del re. Nonostante le obiezioni del generale Carboni, l’armistizio viene formalmente accettato.
Pertanto, il 3 settembre 1943, nella frazione siracusana di Cassibile, il generale Giuseppe Castellano firma l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati (chiamato “armistizio breve”).
Tuttavia, per la poca chiarezza da parte degli angloamericani, che si aggiunge al secolare pressappochismo italiano, all’atto della firma il generale Castellano non è consapevole che esiste già la versione più dettagliata e penalizzante della resa: ossia il cosiddetto “armistizio lungo”. Di conseguenza, nei giorni seguenti, neanche a Roma saranno al corrente di questa importante circostanza.
A questo punto, le cose si complicano sempre più. E soprattutto si assiste a un crescendo di nervosismo, di sospetto e di confusione, sia nel campo italiano sia in quello angloamericano. Infatti, una volta sottoscritto l’armistizio, gli Alleati trattengono il generale Castellano a Cassibile e, il 5 settembre, rimandano a Roma i suoi due collaboratori, Marchesi e Vassallo, senza comunicare la data esatta in cui dovrà essere reso noto l’armistizio stesso.
Castellano, tuttavia, dà loro una lettera per il generale Ambrosio con l’indicazione – da riferire a Badoglio – che tale data sarebbe caduta tra il 10 e il 15 settembre, probabilmente il 12. I due emissari italiani, inoltre, hanno con loro dei documenti dove si comunica che gli alleati, nello stesso giorno della proclamazione dell'armistizio, avrebbero effettuato lo sbarco di una divisione aviotrasportata, in quattro aeroporti nei pressi della capitale secondo il piano Operazione Giant 2.
In breve, cercando di fare chiarezza in un labirinto di mosse e di versioni sempre più confusionarie, discordanti e contraddittorie, questo è l’obiettivo da raggiungere: firmare segretamente l’armistizio con gli Alleati; e successivamente comunicare al mondo la firma dell’armistizio, solo quando le truppe italiane e quelle americane aviotrasportate (Operazione Giant 2) avranno assicurato il pieno controllo di Roma contro ogni tentativo di attacco tedesco.
Elementare e facile a dirsi! Ma tutti (americani e italiani) riusciranno a ingarbugliare la matassa, in modo tale che i tedeschi occuperanno Roma in poche ore e senza perdere neppure un uomo.
Un capolavoro di efficienza germanica, oppure un capolavoro di deficienza italo-americana? La verità sta forse in mezzo.
Un solo esempio: il 7 settembre 1943, ossia un misero e striminzito giorno prima dell’ora X per la proclamazione dell’armistizio (8 settembre), giungono avventurosamente a Roma due ufficiali americani, Maxwell Taylor e William Gardiner, per concordare i particolari operativi della difficile Operazione Giant 2, in base alla quale le truppe italiane e i paracadutisti americani dovrebbero occupare alcuni aeroporti nei pressi di Roma, per impedire ai tedeschi di occupare la capitale italiana.
Badiamo bene: per concordare i particolari operativi di un’importante operazione politico-militare di tal fatta, gli americani si presentano (udite, udite!) un giorno prima dell’operazione! E, peggio ancora, i loro interlocutori sono gli italiani, proprio loro, la cui disorganizzazione e inaffidabilità erano già ben note in tutto il mondo!
Ad ogni modo, questo è il risultato al netto delle varie versioni. Poiché quel giorno, 7 settembre, il Capo di Stato Maggiore, Ambrosio, è a Torino, i due ufficiali americani vengono ricevuti (alle ore 23.00 della notte tra il 7 e l’8 settembre!), dal generale Carboni, il quale, preso da un comprensibile panico per l’improvvisa comunicazione di un’operazione da avviare da lì a poche ore, sostiene che lo schieramento italiano non potrebbe resistere più di sei ore alle truppe tedesche.
Il colloquio si trasferisce allora nella residenza di Badoglio che, data la tarda ora notturna, viene appositamente svegliato. Carboni riesce a convincere il Capo del governo, il Maresciallo Badoglio, del suo punto di vista.
Che fare? Allora Badoglio – a pochissime ore dalla data stabilita per la proclamazione dell’armistizio e, contestualmente, per l’avvio dello sbarco dei paracadutisti americani nei pressi di Roma – detta un radiogramma per il generale Eisenhower, in cui chiede: 1. il rinvio della proclamazione dell'avvenuto armistizio; e 2. l’annullamento dell’Operazione Giant 2.
Purtroppo, al pasticciaccio italiano si aggiunge ora il colpo “geniale” di Eisenhower che, per aggravare ancor più la disastrosa situazione, decide di scindere le due operazioni inscindibili. E cioè: blocca lo sbarco dei paracadutisti americani, ma decide (assurdo e un tantinello criminale!) di proclamare immediatamente e tranquillamente da Radio Algeri la stipula dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati.
Le due operazioni erano inscindibili, perché non si può annunciare al mondo, e soprattutto ai tedeschi, che l’Italia si è sganciata dalla guerra a fianco della Germania, senza garantire nel contempo una forte presenza di truppe italiane e americane nella zona di Roma, per impedire la prevedibilissima reazione tedesca.
Per capire che le due cose dovevano essere inscindibili e contemporanee, non è necessaria la logica di uno stratega, basta la logica di un poveraccio. Eppure il generale americano Eisenhower – comandante in capo delle forze alleate in Europa e futuro presidente degli Stati Uniti – riesce a scindere l’inscindibile, producendo in un sol colpo due pessimi effetti: 1. favorire la rappresaglia dei tedeschi; 2. precipitare nei guai i già inguaiati italiani.
Perché tutto questo? Probabilmente, perché Eisenhower ha soprattutto una maledetta fretta di giocarsi politicamente – agli occhi della Casa Bianca e al confronto con il suo “rivale” americano nello scacchiere del Pacifico, generale MacArthur – la carta del trionfatore il quale impone all’Italia, in un baleno, un armistizio senza condizioni. Probabilmente.
In verità, ci sono momenti storici in cui si concentrano in un solo individuo i difetti del politico e quelli del militare. E questo è il caso dell’americano Eisenhower e dell’italiano Badoglio. Sta di fatto che, alle ore 18,30 dell’8 settembre 1943, gli angloamericani annunciano l’armistizio da Radio Algeri. E i tedeschi ringraziano!
Una volta raggiunti, con l’8 settembre 1943, questi due nefasti “obiettivi” del generale Eisenhower, scoppia logicamente e immediatamente il caos. Per cui si può ben dire che il re non genererà il caos con la sua fuga, ma sarà travolto dal caos e dal precipitare degli eventi. Insomma, egli non sarà causa, ma vittima del caos.
Nella notte tra l’8 e il 9 settembre Vittorio Emanuele III, dopo un iniziale rifiuto di partire da Roma, si lascia convincere da Badoglio che la cosa fondamentale è quella di non far cadere nelle mani dei tedeschi il re, che è il Capo dello Stato, e l’erede al trono, nonché i vertici politici e militari. Il tutto, quindi, per evitare che l’immancabile e spietata rappresaglia tedesca decapiti un’Italia già in preda al caos.
Bisogna, dunque, lasciare immediatamente Roma e trasferire la capitale al Sud, dove gli angloamericani possono offrire protezione e dove può essere garantita la continuità formale dello Stato, soprattutto agli occhi degli Alleati.
In questo modo si ottengono due risultati: 1. gli Alleati vedono garantita la validità dell’armistizio; 2. l’esistenza del governo legittimo, che ha firmato l’armistizio, evita all’Italia l’instaurazione di un duro regime di occupazione, come poi succederà alla Germania.
Alla difesa di Roma, dichiarata “città aperta”, il re lascia suo genero, il generale Giorgio Carlo Calvi di Bergolo, comandante del Corpo d’armata della città.
Così, all’alba del 9 settembre 1943, parte precipitosamente da Roma un convoglio di tre automobili diretto al Sud. È il convoglio che trasferisce il re, la regina e il principe ereditario alla volta di Brindisi. Nella prima auto stanno i due sovrani, due vecchi (il re ha 74 anni; la regina 70 anni) sballottati, impauriti, smarriti. Nella seconda auto c’è Badoglio, e nella terza il principe ereditario Umberto.
Sulla prevedibile e immediata reazione dei tedeschi, basta dire che, nello stesso 9 settembre, hanno già occupato Roma senza alcuno sforzo. E per giunta, dopo tre giorni, ossia il 12 settembre 1943, essi liberano Mussolini e lo portano in Germania, per poi metterlo a capo della Repubblica Sociale Italiana o Repubblica di Salò.
Come prevedibile, la rappresaglia tedesca si abbatterà spietata su un esercito italiano, che già da moltissimo tempo era disorganizzato e sconfitto, ma ora è allo sbando. Basta il feroce episodio di Cefalonia, per avere la misura della bestiale vendetta dei tedeschi sui nostri soldati.
Dopo le dolorose vicende che passarono alla storia come «l’8 settembre», dove il prezzo più alto fu indubbiamente pagato dai soldati e dalla popolazione italiana, su Vittorio Emanuele III calò una coltre di disprezzo e d’ignominia.
Quando non fu deriso, venne sbrigativamente marchiato come il re che fuggì, facendo così precipitare nel caos l’esercito e la nazione.
E tuttavia, senza negare le grandi responsabilità di Vittorio Emanuele III, è necessaria qualche precisazione in merito.
Sul “caos” delle forze armate italiane, si potrebbe dire che almeno per tutta la seconda guerra mondiale i vertici militari, tranne alcune eccezioni, offrirono “magnifici e luminosi esempi” di miopia e disorganizzazione in tutti i fronti, ben prima dell’8 settembre.
Intendiamoci, il nostro esercito non riuscì a brillare neppure quando attaccò, nella primissima fase di guerra, una Francia già messa in ginocchio da Hitler. Per non parlare delle catastrofiche operazioni di guerra sul fronte greco o su quello africano.
Le responsabilità? Di tutti e di nessuno. Infatti, se vai a sentire i vertici politici e militari, ti trovi sempre di fronte a un penoso gioco di scaricabarile, un gioco che ha macroscopici precedenti storici già nella battaglia navale di Lissa nel 1866, a Caporetto nel 1917, e poi ora in Albania, in Grecia, in Libia, in Russia, in Sicilia.
D’altronde, potremmo trovare grandiosi scaricabarile anche nell’antica Roma, per esempio dopo la battaglia di Canne, dove Annibale letteralmente annientò un esercito romano molto più numeroso del suo.
Si sente ripetere ancora oggi che, in quel tragico 8 settembre 1943, le forze armate crollarono perché il re fuggì. Che vigliaccata! – vien da dire – quel codardo d’un re scappa al galoppo, e fa crollare le potenti forze armate italiane!
A pensarci bene, qualche mese prima l’esercito italiano si era “coperto di gloria” in Sicilia, facendo tranquillamente sbarcare e avanzare le armate angloamericane senza una vera e propria linea di resistenza, con truppe dal mediocre addestramento e afflitte dalla penuria di mezzi.
E la marina? Escludendo quel che restava delle corazzate bloccate per mancanza di carburante, la marina avrebbe potuto contrapporre solo dieci misere motosiluranti alla potentissima flotta che attaccava la Sicilia.
Così tutto bene? Tutto bene, signorsì. Peccato che poi quel codardo di un re fugge, e fa crollare le potenti e ordinate forze armate italiane, o, per dirla romanamente, le quadrate legioni italiane!
E poi la stucchevole questione bizantina, che assomiglia alla disputa sul sesso degli angeli, se l’8 settembre 1943 ci sia stata la “fuga” o il “trasferimento” del re, Capo dello Stato, e di Badoglio, Capo del Governo.
In verità, molto semplicemente, ci fu fuga, e fuga precipitosa, perché la disorganizzazione e gli errori (italiani e americani) di quei giorni lasciarono solamente poche ore per il trasferimento dei vertici dello Stato al Sud, lontano dai tedeschi e vicino agli angloamericani; pochissime ore (l’alba del 9 settembre), per tentare disperatamente di sfuggire alla mortale trappola che i tedeschi stavano già facendo scattare a Roma.
Basti pensare che in quel gravissimo marasma, in quella precipitosa fuga organizzata da Badoglio, per mettere al sicuro i due sovrani ormai vecchi, turbati e travolti dall’incalzare degli eventi, nessuno pensa ad avvertire la principessa Mafalda, una delle figlie del re, che in quei giorni si trova in Bulgaria, ignara di tutto.
Lei vuol tornare in Italia, per rivedere i figli. Viene a sapere che i tedeschi hanno scatenato la loro vendetta su tutto ciò che è italiano. Ma, sperando forse in un trattamento di favore perché figlia del re (tragica illusione!), raggiunge Roma dopo giorni di odissea.
Il 22 settembre 1943, Mafalda di Savoia è finalmente a Roma e riesce a vedere i suoi figli, nascosti in Vaticano da Monsignor Montini, futuro papa Paolo VI. Ma i tedeschi fanno scattare la trappola.
L’indomani mattina, all’improvviso, Mafalda viene raggiunta da una cortese telefonata del comando tedesco (i tedeschi fanno sempre tutto con puntiglio e precisione, anche quando mentiscono o quando organizzano un genocidio!), perché suo marito, che sta in Germania, la sta disperatamente cercando. Tutto falso. Il marito della principessa sta in Germania bensì, ma in un campo di concentramento!
La sventurata, appena si presenta al comando tedesco, viene immediatamente arrestata. Successivamente viene trasferita a Monaco, poi a Berlino, e alla fine viene deportata nel campo di concentramento di Buchenwald, da dove non uscirà viva.
Ma torniamo alla “fuga” del re. Il trasferimento di Vittorio Emanuele e di Badoglio è ritenuto necessario per assicurare lo svolgimento delle funzioni dello Stato. E la gravità non sta nella fuga-trasferimento, bensì nel fatto che l’Italia – che ha perso la guerra e si ritrova occupata a Sud dagli angloamericani e al Centro-Nord dai tedeschi, e per giunta con un esercito male equipaggiato – rischia di perdere la sua guida, cioè il capo dello Stato e delle forze armate, poiché Hitler aveva già diramato l’ordine di arrestare il re e i membri della famiglia reale.
D’altronde, è onesto e doveroso ricordare che la storia è ovunque disseminata di prudenti e precipitosi abbandoni delle capitali, di fronte a un imminente pericolo straniero.
Se andiamo alla prima guerra mondiale, il 2 settembre 1915, il governo francese abbandonò Parigi; e si rifugiò non già a quattro passi dalla capitale, ma a Bordeaux, cioè a due passi dall’oceano Atlantico! Però, alla fine i francesi vinsero la guerra. E quindi, per la storia, il loro governo non “fuggì”, ma si “trasferì”.
Si aggiunga che in quel 1915 il governo francese abbandonò Parigi, quando i tedeschi erano a 40 chilometri dalla capitale francese. Invece Vittorio Emanuele III abbandonerà la capitale nel 1943, quando i tedeschi sono già di casa a Roma, e a soli 4 passi dal Quirinale.
Guarda caso, la seconda guerra mondiale ci fornisce altri esempi di “trasferimenti” realizzati o progettati.
Nel giugno 1940, il Presidente della Repubblica francese, Albert Lebrun, si trasferisce a Bordeaux (i francesi già conoscono la strada!) con tutto il suo governo. E Stalin, sotto la pressione dell’invasione tedesca, è pronto a trasferire tutto il governo a Kujbyšev, a 800 chilometri da Mosca. E il re Giorgio VI d’Inghilterra ha in programma di lasciare Londra e di trasferirsi in Canada, in caso di invasione tedesca.
Stessa cosa viene fatta da altre teste coronate: Guglielmina regina dei Paesi Bassi si trasferisce in Gran Bretagna; e così pure Giorgio II di Grecia e Haakon VII di Norvegia, che si trasferiscono a Londra con tutto il governo.
Un’altra riflessione è d’obbligo. Quel re codardo e fellone che, all’alba del 9 settembre 1943, fugge da Roma è lo stesso re che, circa un mese prima (25 luglio 1943), ha il coraggio di fare arrestare Mussolini e di rimanere nella capitale, pur sapendo che i tedeschi presenti a Roma non resteranno con le mani in mano.
Vero è che il re e Badoglio, per “rassicurare” i tedeschi, dichiarano: «la guerra continua». Ma è anche vero che i tedeschi – visto Mussolini arrestato e sparito nel nulla – non sono assolutamente “rassicurati”, e da un momento all’altro reagiranno.
Ci vuol coraggio a fare arrestare Mussolini; e ci vuol coraggio da vendere a restare poi a Roma, sapendo bene che i tedeschi non digeriranno l’eliminazione del loro fedele alleato Mussolini, l’unico italiano di cui si fidano e su cui possono contare.
Tra l’altro, lasciando Roma il 9 settembre 1943, Vittorio Emanuele III si metterà sotto la protezione angloamericana, non solo per cercare asilo ma anche per combattere i tedeschi. Infatti, una volta costituito il Regno del Sud, il re dichiarerà guerra alla Germania, e quindi l’Italia verrà riconosciuta dagli Alleati come co-belligerante.
L’altro marchio d’infamia impresso su Vittorio Emanuele III è quello del “tradimento”. E questo marchio proviene soprattutto dalla sponda fascista e nazista. Con l’arresto del duce, con l’armistizio e con l’8 settembre 1943, il re “tradisce” Mussolini e gli alleati tedeschi.
Del resto, come tutti gli sconfitti, il fascismo cerca una ragione della disfatta nella categoria del “tradimento”. Tutti hanno tradito il duce! Lo hanno tradito i generali, i gerarchi fascisti del 25 luglio, il re, Badoglio, i soldati, tutto il popolo italiano, il quale mugugna perché perde i figli in guerra, perché scarseggiano i viveri, perché è precipitato nell’inferno dei bombardamenti aerei, e perché scende per le strade alla notizia che Mussolini è caduto.
Per contro, secondo questa mitologia, nessun tradimento è stato consumato a danno del popolo italiano, col mettere l’Italia nelle mani dei nazisti grazie all’Asse Roma-Berlino, con lo scopiazzare le leggi razziali naziste, col ridurre l’Italia a un duro vassallaggio sotto il tallone del Reich, con l’entrare in guerra da dilettanti allo sbaraglio.
Ma, anche per il fronte antifascista, il re è un traditore. E qui addirittura la categoria del “tradimento” si somma a quella del “fascismo”. Sicché, a volte in maniera sbrigativa e sommaria, si condanna Vittorio Emanuele III come il re traditore e fascista.
Scontata la condanna della monarchia da parte dell’antifascismo socialista e comunista, andiamo nel campo monarchico liberale e antifascista dove la condanna del re è, in certi casi, abbastanza netta.
Basti pensare che Benedetto Croce, il più monarchico degli antifascisti, alla fine della seconda guerra mondiale ingaggerà una battaglia feroce contro quel piccolo re, che si era legato al fascismo, e che perciò doveva abdicare.
Beninteso, la battaglia crociana contro Vittorio Emanuele III è una battaglia politica, per salvare l’istituto monarchico in Italia. In altri termini, per Croce, il ventennio fascista pesa su quel piccolo re; e bisogna bloccare e respingere in tempo le istanze repubblicane, togliendo di mezzo l’ormai ingombrante e compromesso Vittorio Emanuele, e facendo posto a un suo successore.
Senza dubbio, oltre alla strategia politica di salvare la monarchia con l’abdicazione di Vittorio Emanuele III, è evidente in Benedetto Croce un profondo risentimento e un vivo disprezzo verso quel piccolo re che per vent’anni era andato a rimorchio di Mussolini, mentre il filosofo negli stessi vent’anni aveva combattuto il fascismo a costo dell’isolamento, degli interventi polizieschi e dei pesanti e calunniosi attacchi.
In breve, qui è il Croce politico che prende legittimamente posizione, non certo il Croce storico, il quale ci ha insegnato che la storia è sempre “giustificatrice” e mai “giustiziera”. Il che significa che la storiografia non formula giudizi morali né emette sentenze politiche; non approva né condanna moralmente né politicamente.
Malgrado l’apparente paradosso di questa tesi, bisogna riconoscere che la storiografia “giustifica” (non certo in senso morale né politico), cioè comprende la genesi storica di ogni evento, che magari è da condannare in sede politica o morale.
Per lo storico, la crisi della polis, o le invasioni barbariche, o l’impero carolingio, o il Terzo Reich, non sono oggetto di giudizio morale o politico, sono “fatti” (certamente fatti dagli uomini!) da indagare sine ira et studio, senza ira né pregiudizio, direbbe Tacito. Sono fatti da comprendere nella loro genesi, nel loro svolgimento, nel loro complicato e complesso contesto.
In altri termini, la singola azione dell’individuo è sempre soggetta a giudizio morale (è buona o cattiva; onesta o disonesta) oppure a giudizio politico-economico (è utile o dannosa); ma l’accadimento storico (che è la risultante di mille e mille azioni individuali) non è né buono né cattivo, né utile né dannoso. E perciò l’accadimento dev’essere oggetto del giudizio storico, che mira alla “giustificazione”, meglio ancora alla “comprensione” della genesi di quel determinato evento.
Orbene, secondo l’insegnamento del Croce storico, dobbiamo allora ricordare che, nei primi anni Venti, lo stesso Croce (non solo il re!), pur restando liberale, simpatizzò apertamente per il nascente fascismo. E in tante occasioni considerò e definì il fascismo come la “medicina” adatta all’Italia liberale malata, per riportarla in salute.
Poi, dopo il delitto Matteotti, mentre il re si legherà sempre più al fascismo, il grande filosofo e storico italiano ingaggerà la sua battaglia politica antifascista. E, capovolgendo la sua precedente tesi del fascismo “medicina necessaria e salutare” per l’Italia malata, egli propugnerà la tesi del fascismo “malattia improvvisa e inspiegabile” che colpì il corpo sano dell’Italia liberale.
Addirittura (potenza della passione politica!), Croce utilizzerà l’immagine dell’invasione degli Hyksos nell’antico Egitto, per spiegare l’avvento dei fascisti come “stranieri” e “invasori” dell’Italia liberale.
Invasione degli Hyksos? Un tragico, inaspettato, irresistibile accadimento storico? Ci sarebbe da chiedersi se il Croce, che parla di invasione straniera degli Hyksos, era lo stesso Croce che nel 1922 applaudiva (e non era il solo!) gli Hyksos che ingaggiavano scontri a fuoco con i socialisti e che scorrazzavano in camicia nera per tutta l’Italia.
Insomma dov’era Croce, dov’erano tanti altri, quando avvenne l’invasione degli Hyksos fascisti? Tanti altri futuri antifascisti (liberali, cattolici, ecc.) votarono in Parlamento a favore del governo Mussolini; e qualcuno di loro sedette in quel governo.
La nuda verità sta nel fatto che è sempre lo stesso Croce politico il quale, in base alle esigenze del momento, approva o condanna un evento. E tutto questo è legittimo in sede politica, dove domina la passione e l’interesse di parte. E dove sarebbe ingenuo e astratto pretendere una statica coerenza di idee, di programmi e di azioni.
Ma il Croce storico non deve sacrificare il giudizio storico sull’altare della politica, fosse pure una buona politica.
Ovviamente Vittorio Emanuele III non era Benedetto Croce, e non era un filosofo, ma faceva il mestiere di re, e, con questo suo mestiere di politico, aveva a che fare con uomini in carne e ossa, e non già con pure idee filosofiche; aveva a che fare – come avrebbe detto Giambattista Vico – con la feccia di Romolo, e non già con la Repubblica di Platone.
E con la feccia di Romolo, cioè con il fascismo, egli si compromise; e soggiacque alla politica di Mussolini.
Ad ogni modo, il 9 maggio 1946, quel piccolo re abdica a favore del figlio Umberto. E la sera stessa s’imbarca assieme alla moglie Elena, per raggiungere l’Egitto in volontario esilio.
Il 27 dicembre 1947, viene firmata la Costituzione della Repubblica italiana. Il giorno dopo, il 28 dicembre 1947, quasi come un segno fatale della Storia con la S maiuscola, Vittorio Emanuele III muore in Egitto, in terra straniera.
Così, a 78 anni, quel piccolo re lascia questo «bel porco mondo», come soleva dire lui.
Dove verrà sepolto? Questione secondaria e senza importanza. Nel cuore degli italiani, egli era morto e sepolto da tempo.
Invece, gli stupidi di dimensione cosmico-storica, gli “anti per sempre” (nella politica, come nell’amore, trovi spesso qualche cultore del “per sempre”), saltano in aria, fanno il viso dell’arme, solo a parlar di tombe e di lapidi. E ancora circola petulante qualcuno che è anti-cartaginese, o anti-borbonico, o anti-asburgico. E dimenticano, questi “anti”, che chi è stato grande, nel bene o nel male, vive sempre nella coscienza dei vivi, i quali lo hanno giudicato (assolto o condannato) a prescindere dal luogo di sepoltura.
Ma questa è solamente la Storia dei “grandi”, che però non cancella l’eterna storia dei “minimi”, degli eternamente vinti, ossia la storia con la s minuscola; quella storia miserabile, dove l’hegeliano Weltgeist, lo Spirito del Mondo, non si degna mai di passare, non dico a cavallo, ma neppure a piedi.
In quello stesso anno 1947 – nell’umile storia con la s minuscola – per le vie del mio quartiere si parlò di una ragazza, di nome Carmelina.
Era bella Carmelina, bella come una bella ragazza siciliana con grandi occhi scuri, la carnagione chiara, su cui spiccavano i lunghi capelli ricci e neri. Era innamorata di Turiddu, che le faceva la corte da lontano, lanciandole ogni tanto un’ardita occhiata, mentre lei cuciva dietro i vetri della finestra al pianterreno.
Sul far della sera, al ritorno dal lavoro in campagna, Turiddu le cantava una canzone allora in voga: Se tu sapessi quanto ti voglio bene, tu non faresti quello che al cor mi fai… E lei, radiosa, si affacciava alla finestra, per vedere il suo ragazzo e per sognare la vita assieme a lui.
Poi, in quel maledetto giugno 1940, scoppiò la guerra. E Turiddu fu chiamato alle armi e mandato a combattere in Africa.
Un giorno si seppe che il bastimento, che doveva portare il reggimento di Turiddu in Africa, era stato affondato da un sommergibile inglese, e nessuno era sopravvissuto. Tutti annegati. Morti senza una tomba e senza l’acqua benedetta. Coperti solo dall’acqua salata del Mediterraneo.
Da quel giorno, Carmelina non fu più lei, non sorrise più, non visse più. Ogni tanto, la si sentiva cantare sottovoce Se tu sapessi quanto ti voglio bene… Ma non era un canto, era un singhiozzo, che durò per alcuni anni.
Una mattina del 1947, sua madre la trovò morta.
Carmelina era sopravvissuta alla guerra, ma non al dolore per la morte di Turiddu.
Giuseppe Pezzino