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L' angolo del Prof.

Il Prof.

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Giuseppe Pezzino,  nato a Catania il 30 marzo 1945, è stato professore ordinario di Filosofia Morale presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università degli Studi di Catania. Direttore della Collana di filosofia e scienze umane διάλογος della casa editrice CUECM di Catania. Ha fondato la rivista «Quaderni leif», Semestrale del "Laboratorio di Etica ed Informazione Filosofica"; è membro della "Société des Amis de Port-Royal" di Parigi; è membro del "Centre International Blaise Pascal" di Clermont-Ferrand; è membro  dell'associazione "Les Amis de Bossuet".​

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Giuseppe Pezzino

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INVIDIA

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Giuseppe Pezzino

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VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Quinta ed ultima parte)

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VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Parte IV)

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Il 3 maggio 1938, Hitler e i vertici del Terzo Reich (il delfino di Hitler, Rudolf Hess; il numero due del nazismo, Hermann Göring

VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Parte III)

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VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Parte II)

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Dopo anni di guerra, dopo la vittoria del 1918, si aspettava la pace. Si vagheggiava un avvenire di ricostruzione e di concordia nazionale.

VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Parte I)

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OGGI, 25 LUGLIO 2020

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VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Parte II)

2020-09-15 17:05

Giuseppe Pezzino

VITTORIO EMANUELE III QUEL PICCOLO RE (Parte II)

Dopo anni di guerra, dopo la vittoria del 1918, si aspettava la pace. Si vagheggiava un avvenire di ricostruzione e di concordia nazionale.

 

 

 

VITTORIO EMANUELE III
QUEL PICCOLO RE

(Parte II)
 

 

 

Dopo anni di guerra, dopo la vittoria del 1918, si aspettava la pace. Si vagheggiava un avvenire di ricostruzione e di concordia nazionale. E invece Vittorio Emanuele III si accorge che ora vengono al pettine i nodi che la guerra aveva provocato o aggrovigliato.
L’Italia è adesso priva della migliore gioventù macellata al fronte; 680.000 morti; le famiglie precipitate nel lutto e nella miseria; oltre mezzo milione di mutilati di guerra che, dopo aver ricevuto la medaglia, si aspettano ora l’aiuto da quell’Italia per cui hanno combattuto; un’economia di guerra che stenta a trasformarsi in economia di pace; una legione di reduci, che hanno dovuto abbandonare la campagna, l’officina, la bottega, per andare a combattere, ed ora debbono ripartire da zero, mentre i furbi, i pescecani, si sono arricchiti con le forniture militari.
Si disse che la vittoria era stata mutilata. Ma è l’Italia ad essere mutilata. Per giunta, si vive in uno spettrale scenario mondiale – assolutamente inimmaginabile prima della guerra – perché sono spariti ben quattro istituti sovranazionali: l’impero ottomano, l’impero russo, l’impero austro-ungarico, l’impero tedesco. Un’immensa voragine si è aperta, una voragine che risucchia popoli, religioni, nazionalità, e che rilancia tensioni nazionali o nazionalistiche, rivendicazioni socio-economiche, conflitti razziali e religiosi, forze centrifughe e un profondo malcontento in tutti.
Si pensi a quel che rappresenta l’«impresa di Fiume» tra il 1919 e il 1920, con un governo italiano che, da un canto, deve far fronte a forze italiane ribelli e, dall’altro, deve gestire un pesante affare internazionale, quale la definizione della pace e il rispetto dei patti alleati verso l’Italia.
In verità, non esiste più il vecchio equilibrio geo-politico. Non esiste ancora un nuovo equilibrio. Ormai, è la finis Europæ. E nella lunga agonia, che va dalla prima alla seconda guerra mondiale, si consumerà il suicidio della vecchia Europa che, nel bene e nel male, era stata il centro della civiltà mondiale, dove passava l’asse economico, culturale, politico e militare del pianeta.
Tornando in Italia alla fine della prima guerra mondiale, bisogna dire che il primo anno di pace, il 1919, fu tutt’altro che “pacifico”.
Oltre alla questione fiumana, sull’intero scenario politico, sociale ed economico italiano dominano gli eventi giganteschi della Rivoluzione russa, scoppiata nel 1917 e ancora in piena e violenta gestazione. Per molti, essa è un mito, un modello da seguire. Per molti altri, invece, è lo spauracchio, l’anticamera dell’inferno di una guerra civile che potrebbe scoppiare anche in Italia.
Dalla parte del mito e del modello russo, troviamo il Partito Socialista che, nel suo generoso sogno di giustizia sociale e di emancipazione delle classi sfruttate, fin dalla sua nascita di moderno partito di massa non riesce a superare la confusa e confusionaria conflittualità fra le istanze riformiste, di collaborazione con lo Stato italiano, e le istanze rivoluzionarie, di scontro frontale e senza compromessi contro il blocco borghese e capitalista.
In altri termini, nel Partito socialista c’è di tutto. E dal partito esce di tutto, a colpi di espulsioni. Tanto per ricordare qualcosa, nel 1907 escono i sindacalisti rivoluzionari; nel 1912 escono i riformisti Bissolati e Bonomi, e, guarda caso, prende il sopravvento la corrente massimalista di Amadeo Bordiga (il futuro fondatore del Partito comunista) e di Benito Mussolini (il futuro fondatore del Partito fascista).
Con lo scoppio della prima guerra mondiale, si ha poi una sorta di fuoco d’artificio socialista: Mussolini passa all’«interventismo rivoluzionario» e viene espulso dal partito; Bonomi e Bissolati passano all’«interventismo democratico»; mentre il Partito socialista nel suo complesso sta impacciato in mezzo al guado, con l’ambigua linea del «non aderire né sabotare».
Durante la guerra, nel 1917, allo scoppio della Rivoluzione russa, i socialisti italiani accentuano le richieste di arrivare subito alla pace e non lesinano espliciti inviti alla ribellione. Dopo Caporetto, il Partito socialista non può non spaccarsi ancora una volta fra chi “scavalca a sinistra” la sinistra, e chi, di fronte al rischio concreto di una vittoria austriaca, sente il dovere di schierarsi con la nazione in guerra. Valga per tutti l’esempio di Filippo Turati che, in parlamento, pronuncia queste parole: «L'onorevole Orlando ha detto: Al Monte Grappa è la Patria. A nome dei miei amici ripeto: Al Monte Grappa è la Patria».
Ad ogni modo, il Congresso socialista di Roma (1-5 settembre 1918) rafforza la linea politica massimalista, che deve realizzarsi esclusivamente sul terreno della lotta di classe e deve prevedere l’espulsione di chi «renda omaggio alle istituzioni monarchiche, partecipi od indulga a manifestazioni patriottiche o di solidarietà nazionale». Per costoro c’è una sola parola: espulsione!
Insomma, siamo all’inizio del Biennio rosso 1919-1920, caratterizzato da una serie di lotte operaie e contadine che raggiungeranno il culmine e la loro conclusione con l'occupazione armata delle fabbriche nel settembre 1920.
Tantissimo è stato scritto su questo Biennio rosso. E tuttavia c’è ancora spazio per un frammento di giudizio storico che, in quanto tale, non sia pre-giudizio ideologico di parte, di qualunque parte.
Perciò bisogna considerare, in modo equilibrato e non schematico, che, accanto alle legittime istanze di tanti lavoratori, esiste anche lo stato d’animo di tantissimi disoccupati (operai, contadini, artigiani), che sono stati mandati al fronte, che hanno perso il lavoro, e che ora guardano con ostilità e rancore (l’odio di classe!) a quella “aristocrazia operaia” che era rimasta a casa e si era formata, durante la guerra, nell’industria pesante del Nord. E che magari, ai loro occhi, ora si balocca con l’occupazione armata delle fabbriche.
Bisogna, inoltre, mettere in conto l’inevitabile paura di precipitare nell’inferno rivoluzionario di una guerra civile, come quella russa. «E noi faremo come la Russia…», si sente cantare per le strade d’Italia. E non tutti hanno il flemmatico ottimismo e la consumata esperienza politica di Giovanni Giolitti che, a settantotto anni, spera ancora di mantenere sul piano sindacale lo scontro fra operai e imprenditori. «Ho voluto – afferma Giolitti – che gli operai facessero da sé la loro esperienza, perché comprendessero che è un puro sogno voler far funzionare le officine senza l'apporto di capitali, senza tecnici e senza crediti bancari. Faranno la prova, vedranno che è un sogno, e ciò li guarirà da pericolose illusioni».
Nell’intreccio di questi drammatici eventi italiani bisogna collocare pure, tra il 1919 e il 1921, la nascita di tre schieramenti politici che avranno un enorme peso nel futuro dell’Italia.
Il 18 gennaio 1919, a Roma, don Luigi Sturzo fonda il Partito Popolare Italiano, che fa balzare i cattolici sulla scena politico-parlamentare italiana, e che alle elezioni di questo stesso anno conquista il 20% dei seggi in parlamento. Un’affermazione trionfale.
Nello stesso anno, il 23 marzo 1919, in piazza San Sepolcro a Milano, Benito Mussolini fonda i Fasci Italiani di Combattimento, da cui sorgerà presto, nel 1921, il Partito Nazionale Fascista.
Nel 1921, in occasione del Congresso socialista di Livorno, avviene l’ennesima e non ultima scissione, con cui si fonda il Partito Comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale comunista, avente come segretario Amadeo Bordiga.
Insomma, accanto a idee e partiti di sicura matrice liberal-democratica, si agitano in Italia, da sinistra e da destra, gli spettri di progetti politici non sempre democratici e non sempre liberali. Di fronte a questi rischi, si manifesta l’incapacità politica dei governi liberali; e appare il fiato corto del laissez faire, laissez passer, che Gioliti applica per i conflitti politico-sociali.
Qualche esempio sull’inarrestabile declino dei governi liberali: Vittorio Emanuele Orlando, il Presidente della Vittoria, dura dal 30 ottobre 1917 al 23 giugno 1919; il primo governo di Francesco Saverio Nitti dura dal 23 giugno 1919 al 21 maggio 1920; il secondo governo Nitti va dal 22 maggio 1920 al 9 giugno 1920 (diciotto giorni!); il quinto governo Giolitti va dal 16 giugno 1920 al 26 giugno 1921; il governo di Ivanoe Bonomi va dal 4 luglio 1921 al 18 febbraio 1922; il primo governo di Luigi Facta va dal 26 febbraio 1922 al 19 luglio 1922; il secondo governo Facta dura dall’1 agosto 1922 al 31 ottobre 1922.
Poi verrà il governo Mussolini, che durerà un ventennio!
Riflettiamo: Prima del governo Mussolini, sette governi in cinque anni. Il che significa – in una situazione drammatica come quella italiana – una sostanziale mancanza di governo, un vuoto di linea politica, dal momento che ognuno di quei governi non fa a tempo a prendere le consegne, a rendersi conto della situazione altamente critica e a padroneggiare la cigolante macchina dello Stato, che subito entra in crisi, per cedere il posto a un nuovo governo che ripercorrerà la stessa via crucis.
Al di là delle aride cifre, bisogna dire che la violenza politica attuata dalle “squadre” fasciste prende man mano il sopravvento sulla violenza parolaia e intransigente e inconcludente del Partito socialista. Basti pensare che, votando contro il governo Nitti, il Partito socialista ebbe a dichiarare con soddisfazione: «Siamo lieti di trovarci di fronte ad altro governo di coalizione borghese, perché ancora e sempre il nostro bersaglio non sarà l'uno o l'altro partito, ma tutti i partiti borghesi. E faremo altrettanto contro i governi che si ergeranno a sostituire l'attuale». Contenti loro …
Esemplare è lo sciopero generale del 20-21 luglio 1919. Da una parte e dall’altra, tantissimi (chi per paura, chi con speranza) vedono in quello sciopero la grande ora della rivoluzione. Alla fine, non ci saranno atti di violenza e addirittura quasi ovunque i servizi continueranno a funzionare. Purtroppo per alcuni, e fortunatamente per altri, non è scoccata l’ora della rivoluzione!
A tal proposito, Ludovico D’Aragona, allora segretario generale della Confederazione Generale del Lavoro, ci aiuta a capire meglio lo stato d’animo della sinistra in quel momento:
«La propaganda fatta da parecchi mesi dagli elementi estremisti aveva creato la speranza del prossimissimo fatto rivoluzionario, che doveva dare il potere alla dittatura del proletariato. Questo stato d'animo era diffusissimo nelle folle, e poiché a queste non si può attribuire una capacità di valutare in tutta la complessità loro i fatti storici avvenuti o che avvengono, si comprende facilmente il perché l'annuncio dello sciopero di protesta apparve – anche perché da taluno così venne chiamato – lo sciopero “espropriatore”. Il non avvenuto fatto rivoluzionario portò non diciamo uno scoramento, ma una violenta correzione alle speranze degli operai e, contemporaneamente, rialzò la debole volontà industriale di lanciarsi in una lotta che stroncasse la potenza del sindacato operaio».
Ovviamente, a sinistra sentono che le aspettative rivoluzionarie sono fallite. Così il sogno della dittatura proletaria antiborghese e anticapitalistica si va lentamente spegnendo, mentre a destra prende vigore la volontà di dare ordine a una nazione in ginocchio e nel caos.
Basti pensare che, secondo lo storico Renzo De Felice, solamente fra gennaio e maggio 1921 (in cinque mesi!) si ebbero questi morti assassinati: 48 socialisti, 35 fascisti, e 21 fra le forze dell'ordine!
Nel 1922 non si contano più le occupazioni di prefetture e di municipi da parte dei fascisti, i quali, al sogno della rivoluzione comunista, contrappongono il sogno della loro rivoluzione fascista.
Addirittura il 24 ottobre 1922 a Napoli, quasi come prova generale della Marcia su Roma, Mussolini passa in rassegna quarantamila camicie nere e afferma il diritto del fascismo (una minoranza in Parlamento!) di assumere il governo di un’Italia mal governata dai vecchi politici liberali.
Il 27 ottobre 1922, il governo italiano è al collasso; e l’attacco allo sbandato Stato italiano è fin troppo evidente. Nell'Italia settentrionale, iniziano i primi movimenti squadristici con l'occupazione di prefetture e caserme. Vittorio Emanuele III si precipita a Roma dalla tenuta di San Rossore e comunica al debole primo ministro Luigi Facta la propria intenzione di “decidere personalmente” sulla crisi in atto.
La sera del 27 ottobre, Facta va a dormire non già profondamente – come il principe di Condé prima della vittoriosa battaglia di Rocroi del 1643 – ma con relativa tranquillità, sia perché ora c’è il re a togliere le castagne dal fuoco, sia perché crede e spera che Mussolini stia bluffando.
Ma, nel cuore della notte, Facta viene improvvisamente svegliato dai suoi collaboratori, che lo informano delle occupazioni fasciste e della calata delle colonne di camicie nere su Roma.
Alle sei del mattino del 28 ottobre 1922, Facta riunisce in fretta e furia il Consiglio dei ministri, che delibera il ricorso allo stato d’assedio per bloccare la marcia su Roma. Ma, quando alle ore 9 dello stesso giorno si reca dal re al Quirinale per la controfirma, egli riceve il rifiuto di Vittorio Emanuele a sottoscrivere l’atto.
Quando Vittorio Emanuele III vede la bozza di proclama dello stato d’assedio, va su tutte le furie e, dopo aver strappato il testo dalle mani di Facta, in uno scatto di collera gli dice: «Queste decisioni spettano soltanto a me. Dopo lo stato d’assedio non c’è che la guerra civile. Ora bisogna che qualcuno di noi due si sacrifichi».
Ovviamente, a Facta non sembra vera l’occasione di “sacrificarsi”, di dare le dimissioni e di scappare via! 
È furibondo Vittorio Emanuele, perché Luigi Facta, nella sua pochezza politica, ha sottovalutato l’incontro del giorno prima col re, che gli aveva detto di voler “decidere personalmente” sulla crisi in atto. Ovviamente, nel linguaggio di un re costituzionale, “decidere personalmente” significa volere esaminare le proposte del Governo, prima che esso assuma formalmente decisioni più o meno opportune in momenti storici gravissimi.
È furibondo il re, perché Facta, dopo il loro accordo del 27 ottobre 1922, all’indomani riunisce all’alba (alle ore 6) il Governo che decide per lo stato d’assedio. Così facendo, il maldestro capo del governo ha cacciato in un vicolo cieco la Corona e il Governo. E, ormai con le spalle al muro, e con margini di manovra ridottissimi, da quel vicolo si esce soltanto firmando o non firmando lo stato d’assedio.
A differenza di qualche politico italiano di allora, quel piccolo re è da tempo perfettamente consapevole che una nuova e più pericolosa Caporetto sta minacciando la Corona e l’Italia.
È facile proporre – come fanno Badoglio e Facta – lo stato d’assedio, e quindi mettere in conto di fare sparare (dicono loro!) a quei quattro pagliacci in camicia nera, che vanno goliardicamente a Roma, spacciando la loro gita come “Marcia su Roma” (dicono sempre loro!).
Ma il re non dimentica che proprio quei “gitanti” in camicia nera, da circa due anni, formano “squadre d’azione” che bruciano le Camere del Lavoro, ingaggiano conflitti a fuoco con i socialisti, realizzano spedizioni punitive, occupano manu militari caserme e prefetture, con la fin troppo evidente benevolenza di alcune autorità militari e politiche.
Il re sa – e lo ha detto furibondo a Facta – che «dopo lo stato d'assedio non c’è che la guerra civile». Ed egli non ha certamente atteso la chiamata del capo del governo, per riflettere sulla gravissima situazione che lo sta scuotendo.
Personalmente ha coraggio da vendere. E il sangue lo ha visto scorrere sin da piccolo, quando il 17 novembre 1878 si trovò sulla carrozza reale assieme a suo padre, re Umberto I, e al capo del governo Benedetto Cairoli. In quell’occasione, l’anarchico Passannante tentò di uccidere re Umberto, ma Cairoli difese il re e si prese una pugnalata alla coscia con una vistosa perdita di sangue, che macchiò tutto il vestito di marinaretto del piccolo Vittorio Emanuele. Aveva nove anni il principe, ma rimase impassibile. Salvo poi a scoppiare in lacrime la sera, fra le braccia della sua tata Bessie, ossia la sua amata istitutrice Elizabeth Lee.
Di attentati alla sua persona ne subirà almeno tre, e in tutti quei casi non si farà prendere dal panico. Addirittura, quando nel 1941 subisce un attentato in Albania da parte di un giovane, Vasil Laci Mihailoff, che gli spara cinque colpi senza centrarlo, egli resterà impassibile e, con cadenza piemontese, dirà: «Spara ben male quel ragazzo».
Egli è nato e cresciuto fra gli attentati anarchici. Ma, dopo la tragedia della prima guerra mondiale, e soprattutto dopo la Rivoluzione russa del 1917, re Vittorio Emanuele conosce meglio di qualche altro la differenza che passa tra un anarchico e un rivoluzionario.
Egli, che oltre tutto mastica abbastanza la storia, sa che un anarchico mira a fare terrorismo, ricorrendo alla rivoltella e all’attentato; mentre il rivoluzionario mira a instaurare il Terrore – la Terreur, come si chiamava in Francia ai tempi di Robespierre e della ghigliottina. L’anarchico colpisce una o più persone. Il rivoluzionario, francese o russo che sia, stermina intere classi sociali (l’aristocrazia, oppure la borghesia, oppure i contadini). E il tutto non avviene senza contraccolpi, senza reazioni che portano a vere e proprie guerre civili.
Egli conosce pure l’intrinseca debolezza non solo del governo Facta, ma di tutti i governi nati dopo la fine della prima guerra mondiale.
E poi, lo stato d’assedio e l’esercito che spara sui fascisti! Ma scherziamo? Lui sa che tanti generali e tanti ufficiali simpatizzano per Mussolini. La prova? Mentre il generale Badoglio propone di ricorrere allo stato d’assedio, il generale Armando Diaz, l’eroe della Vittoria, “sconsiglia” il re di ricorrere all’intervento armato contro Mussolini.
Addirittura Vittorio Emanuele III conosce bene gli atteggiamenti filofascisti di suo cugino Emanuele Filiberto duca d’Aosta, eroe della prima guerra mondiale, il quale può giocare il doppio ruolo micidiale di garante mussoliniano nelle forze armate e, peggio ancora, di pretendente al trono una volta scoppiata la “rivoluzione fascista”.
Tra l’altro, nella malaugurata ipotesi di una guerra civile, la Corona si troverebbe a fare da bersaglio al fuoco incrociato da destra e da sinistra. Chi difenderebbe il re dagli attacchi fascisti? Forse il Partito socialista, che ormai è ubriaco di odio di classe, di lotta contro la monarchia e lo Stato borghese? Forse il Partito Popolare dei cattolici, che nel re vede un usurpatore, che a Roma siede al posto del papa prigioniero nei Palazzi vaticani? Forse i politici liberali, che in parte simpatizzano col fascismo come mezzo per uscir fuori dal vicolo cieco della crisi? Forse l’esercito, che ondeggia tra la fedeltà al re e le simpatie al fascismo?
E poi, troppo fresco è il ricordo del caos in cui precipitò l’impero tedesco, nell’ultima drammatica fase della prima guerra mondiale. Basti pensare allo sfacelo delle disciplinatissime forze armate tedesche, che presentarono parecchi casi di diserzioni, disobbedienze e ammutinamenti.
Il 29 ottobre 1918, scoppia l’ammutinamento degli equipaggi di due navi da guerra tedesche ormeggiate nel porto militare di Wilhelmshaven; e il 3 novembre a Kiel, principale porto della flotta tedesca, i marinai insorgono. Da simili episodi prende avvio, nel giro di pochi giorni, una rivoluzione che investe l'intera Germania, e già il 9 novembre 1918 essa conduce alla proclamazione della repubblica, a cui seguirà poco dopo l'abdicazione del kaiser Guglielmo II.
Insomma, il grande e orgoglioso impero tedesco, prostrato da una guerra pesantissima, in pochi giorni di rivoluzione viene spazzato via!
Ma quel che turba le notti di Vittorio Emanuele III è l’interminabile fiume di sangue che continua a scorrere in Russia. Quel che non gli dà pace è l’assassinio dello zar Nicola II e della sua famiglia.
L’ombra di quel che era stato lo zar di tutte le Russie lo viene spesso a trovare – il corpo crivellato da proiettili e da colpi di baionetta, gli occhi azzurri velati di lacrime, i capelli e la barba impastati di fango e di sangue rappreso – per ricordargli la fragilità di ogni potenza terrena e per mostrargli i segni di una feroce esecuzione, che non aveva risparmiato nemmeno i suoi figli.
Aveva abdicato Nicola II Romanof, il 15 marzo 1917. Aveva abdicato, e la sera stessa aveva scritto nel suo diario: «Una penosa sensazione, mi sentivo un sopravvissuto. Attorno a me tradimento, viltà e inganno».
Abdicare fu probabilmente un sollievo per un uomo come Nicola II, poco adatto al comando e alla politica. Sempre indeciso, sempre pronto a mutare parere, al punto tale che si poteva dire che in Russia comandavano in due: lo zar e chiunque gli avesse parlato per ultimo.
Fondamentalmente buono, debole e ingenuo (tre qualità pessime per un politico), era addirittura convinto che il popolo lo amasse, e non si accorse della crescente impopolarità che lo circondava. Non sapeva, lo sventurato, che la propaganda bolscevica lo aveva soprannominato “Nicola il Sanguinario”!
Non aveva capito Nicola II (forse non glielo avevano detto!) che c’era stato il 1905, un annus horribilis, in cui egli subì un crollo di prestigio internazionale per la disfatta con il Giappone e soprattutto fu circondato dall’odio popolare per il sangue di tanti innocenti sparso nella “Domenica di sangue” a San Pietroburgo.
Era talmente incapace di governare non solo le sorti di un impero, ma persino quelle della sua stessa persona e della sua famiglia, che non seppe fuggire all’estero (in Inghilterra lo aspettava suo cugino Giorgio V) per evitare la trappola di odio e di sangue che lo stava incastrando.
Lo mettono agli arresti e gli lasciano soltanto il titolo di colonnello. Il 22 marzo 1917, il prigioniero “colonnello Nicola Romanov” arriva a Carskoe Selo, dove si ricongiunge con la sua famiglia e una piccola parte del seguito, anch'essi prigionieri.
In seguito alla Rivoluzione d'ottobre e alla salita al potere di Lenin, nell'estate del 1918 in seno al partito bolscevico si ha una divergenza: da una parte, il compagno Trotsky vorrebbe trasferire l’ex imperatore Nicola a Mosca, per giudicarlo in uno spettacolare processo, trasferendo al contempo la sua famiglia all'estero; dall'altra, il compagno Sverdlov, molto più sbrigativo, suggerisce una soluzione immediata e intransigente nei confronti di tutti i rappresentanti della famiglia Romanov. 
Non ci vuole molto a immaginare per quale delle due proposte propenda il compagno Lenin.
A Ekaterinburg è già stato deciso di trasferire i Romanov in una palazzina, per essere uccisi. Lì i prigionieri condividono l'abitazione con le guardie addette alla loro sorveglianza e sono sottoposti da queste ultime a numerose angherie. Vista l'avanzata della "Legione cecoslovacca", appartenente all'Armata Bianca controrivoluzionaria, vengono accelerati i tempi dell'esecuzione. L'operazione viene affidata a un commissario della Ceka (la polizia politica istituita da Lenin), il quale si occupa subito di organizzare la fucilazione e il successivo occultamento dei corpi. 
In una notte d’estate, scocca l’ora fatale per la famiglia Romanov. Una famiglia in cui Nicola amava Alessandra e da lei era riamato. Una famiglia infelice e sfortunata, dove la tremenda malattia del piccolo Alessio esalta e fortifica l’amore per tutti i figli. Una famiglia sicuramente unita; unita sino alla morte.
Nella notte tra il 16 e il 17 luglio 1918, il commissario della Ceka, compagno Jurovskij, sveglia Nicola Romanov e la famiglia, dando l'ordine di preparare i bagagli per una partenza. Ovviamente dice il falso, per mantenere in tranquillità i prigionieri prima dell’esecuzione.
Sgomberate le stanze, i Romanov e gli altri prigionieri sono condotti nello scantinato della casa, dove Jurovskij ordina di disporsi per una fotografia di notifica (anche questa è un’atroce messa in scena, per favorire la fucilazione), dopodiché chiama il commando armato per eseguire la messa a morte.
Il compagno Jurovskij, delegato personale del «volere della rivoluzione», legge frettolosamente: «Il presidium del soviet regionale, adempiendo al volere della rivoluzione, ha decretato che l’ex zar Nicola Romanov, colpevole di innumerevoli sanguinosi crimini contro il popolo, debba essere fucilato».
Secondo quanto testimoniarono lo stesso Jurovskij e altri membri del commando, quando viene letta la sentenza, l'ex imperatore, incredulo e stupito, si rivolge al commissario con una frase confusa: «Cosa? Cosa?». Al che Jurovskij, ripetuta frettolosamente la sentenza, dà l'ordine di sparare.
L'esecuzione dura venti lunghissimi interminabili minuti. Nemmeno per l’abbattimento di una mandria di vitelli si impiega tanto tempo in un macello! Ma quei “giustizieri” sono “giustificati”, perché sono macellai dilettanti.
Nella confusione che seguì, il primo a cadere è Nicola II; poi la moglie Aleksandra Fëdorovna; i membri del séguito, il medico dottor Botkin, l'inserviente Trupp, il cuoco Charitonov; i cinque figli, Ol'ga (23 anni), Tat'jana (21 anni), Marija (19 anni), Anastasija (17 anni), Aleksej (14 anni), e la dama di compagnia Anna Demidova.
Tre delle figlie dello zar, rannicchiate in un angolo, non muoiono all'istante ed è necessario (per colmo di crudeltà bestiale!) finirle con le baionette, sempre secondo la testimonianza del commissario della Ceka.
Finire le ragazze con le baionette! Non potevano ricorrere al colpo di grazia, sparando una rivoltellata alla testa? No, avrebbero sprecato altro piombo. E quei compagni avevano letto Marx, e quindi conoscevano il valore dell’economia e del risparmio!
I corpi sono portati nel vicino bosco e, dopo una previa separazione (i cadaveri di Aleksej e Marija sono bruciati a metà strada), vengono denudati, fatti a pezzi e gettati nel pozzo di una vecchia miniera.
Quindi i resti sono sciolti con acido solforico e infine dati alle fiamme. Era necessario che i controrivoluzionari non trovassero alcuna traccia dell'esecuzione avvenuta.
Il giorno dopo l'esecuzione, il compagno Sverdlov, interrompendo i lavori del comitato centrale di Mosca, mormora qualcosa al compagno Lenin, che ovviamente sa tutto e aspetta soltanto l’esito dell’operazione. Allora Lenin dice ad alta voce: «Il compagno Sverdlov deve fare una dichiarazione». «Devo dire», afferma Sverdlov, «che abbiamo ricevuto notizie da Ekaterinburg. Per decisione del Soviet regionale, è stato fucilato Nicola II in un tentativo di fuga [ovviamente è falso che Nicola II abbia tentato la fuga] mentre le truppe cecoslovacche si avvicinavano alla città. Il presidium del comitato esecutivo centrale panrusso approva tale decisione».
Segue un “silenzio generale”, fino a quando il compagno Lenin non propone di continuare il lavoro interrotto.
Non c’è nulla da dire; giustizia era stata fatta. Anzi, si era sottratto fin troppo tempo al prezioso lavoro del comitato centrale di Mosca. The show must go on. Lo spettacolo del comitato centrale deve andare avanti!
Ma torniamo a Vittorio Emanuele III, e ai pensieri che gli galoppano intorno, durante le drammatiche giornate dell’ottobre 1922. Egli, che sin dall’inizio del suo regno ha posto al centro l’unità e la concordia nazionali, ora è cosciente che l’edificio della nazione presenta gravissime e allarmanti spaccature, tali da rischiare un crollo che coinvolgerebbe tutto e tutti.
Fidarsi di Giolitti è cosa pacifica; ma affidarsi a Giolitti ormai non basta più. È vero, nei momenti roventi del Biennio rosso, la politica giolittiana di neutralità e di attesa aveva portato a un accordo fra le parti sociali, sino alla liberazione delle fabbriche. Ma alla fine, senza acquisire un legame politico con gli operai, aveva ingenerato rabbia e frustrazione negli industriali, i quali, per quasi un mese, si erano visti spossessati dei propri stabilimenti, e avevano dovuto alla fine accettare le richieste sindacali operaie, alimentando i loro propositi di rivalsa, anche nei confronti del governo e dello stesso Stato liberale che (secondo loro) non aveva sufficientemente tutelato gli industriali.
Pare che, durante il Biennio rosso, il fondatore della FIAT, Giovanni Agnelli, abbia avuto un colloquio con Giolitti, per denunciare la grave situazione della sua fabbrica occupata dagli operai. Pare, inoltre, che Giolitti abbia alla fine risposto con ironia e insofferenza: «Benissimo, darò ordine all’artiglieria di bombardarla».
Visti i mortificanti risultati, Agnelli tacque e lasciò Giolitti; ma non dimenticò che gli imprenditori non potevano e non dovevano aspettarsi protezione dallo Stato liberale.
E le forze armate? Nemmeno loro godevano buona salute. Basti pensare che a Trieste, nel giugno 1920, un gruppo di soldati, in attesa dell’imbarco per l’Albania, aveva usato le armi contro gli ufficiali, lasciando sul terreno due morti e numerosi feriti. Si aggiunga che, nello stesso mese, era scoppiata ad Ancona la “rivolta dei bersaglieri” che non volevano partire per l’Albania. Questa vicenda diede luogo a una vera e propria ribellione armata, che si estese in tutte le Marche, in Romagna, in Umbria, in Lombardia, e persino a Roma.
E adesso, dopo il pasticcio di Facta, bisogna pur giocare la partita. Insomma, un Facta può dimettersi, scendere dalla nave, e mettersi al sicuro sulla terraferma. Ma il re deve restare a bordo, e deve far fronte a un imminente pericolo di naufragio. E la partita, che può essere mortale, viene giocata sia da Mussolini, che resta in albergo a Milano (non si sa mai, la Svizzera è vicina!), sia dal re, che sta a Roma. Ciascuno dei due ha a sua disposizione delle pedine; e fare una mossa sbagliata può significare la fine del giocatore sconfitto.
Lo zar Nicola II e il kaiser Guglielmo II docent.
In molti – e molti di questi saranno poi antifascisti – sono convinti che dialogare con Mussolini sia diventato ormai inevitabile: Giovanni Amendola e Vittorio Emanuele Orlando (fior di liberali entrambi) teorizzano una coalizione di governo che includa anche i fascisti. Lo stesso Nitti, che spera nella presidenza del Consiglio, ritiene ora un'alleanza con Mussolini il mezzo migliore per scalzare il suo avversario Giolitti.
Dopo la bocciatura da parte mussoliniana di un possibile gabinetto Salandra-Mussolini, il 29 ottobre 1922 Vittorio Emanuele III, previa consultazione con i massimi esponenti della classe dirigente politica liberale (Giolitti, Salandra) e con i vertici militari (il generale Diaz, e l’ammiraglio Thaon di Revel), affida a Mussolini, deputato solo da un anno (1921), l'incarico di formare un nuovo governo, con l'intento di far rientrare il movimento fascista nell'alveo costituzionale parlamentare e di favorire la pacificazione sociale.
La speranza del re è quella di applicare su Mussolini la tattica che in precedenza egli aveva adottato nei confronti del generale Cadorna. E cioè: accettare – sotto il ricatto di una guerra civile – le rigide condizioni del capo del partito fascista, ma non rinunciando affatto ai propri poteri di Capo dello Stato, e soprattutto standogli costantemente addosso, in attesa di un passo falso per licenziarlo. Sarà vincente questa strategia? Sì e no.
In ogni caso, il re e l’establishment liberale pensano di blindare con i loro uomini il governo Mussolini. Sicché quest’ultimo appare sulla carta, se non proprio un re travicello, come un capo del governo circondato da una maggioranza di ministri per nulla fascisti.
Ma scendiamo nel particolare, affinché si comprenda che la prima mossa mussoliniana si realizza nell’alveo della tradizione liberal-parlamentare.
I ministri fascisti sono solo tre (Alberto de' Stefani, Giovanni Giuriati e Aldo Oviglio); due sono militari fedeli al re (Armando Diaz e Paolo Thaon di Revel); due cattolici del Partito Popolare di Sturzo; due democratico-sociali; uno liberale salandrino; uno liberale giolittiano; uno nazionalista; e uno indipendente (Giovanni Gentile). Il capo del governo Mussolini si riserva gli Interni e gli Esteri, come spesso era accaduto nella storia dell’Italia liberale.
Questo governo rientra perfettamente nella legalità dello Statuto albertino; e sembra accendere ovunque le speranze di pacificazione e di ripresa. Senza dubbio Mussolini – che non è un novellino e che proviene dalla formidabile palestra politica del socialismo e poi dell’interventismo – fornisce continuamente prove di essere un consumato attore politico che conosce a fondo il suo mestiere, ora vestendo i panni del rivoluzionario in camicia nera, ora indossando il frac del capo di governo.
E il discorso di Mussolini alla Camera il 16 novembre 1922, quando si presenta per chiedere la fiducia, è un saggio della sua capacità istrionesca di recitare il doppio ruolo di uomo delle istituzioni e di capo rivoluzionario:
«Signori! Quello che io compio oggi, in quest'aula, è un atto di formale deferenza verso di voi e per il quale non vi chiedo nessun attestato di speciale riconoscenza. Da molti anni, anzi, da troppi anni, le crisi di governo erano poste e risolte dalla Camera attraverso più o meno tortuose manovre ed agguati, tanto che una crisi veniva regolarmente qualificata un assalto ed il ministero rappresentato da una traballante diligenza postale. Ora è accaduto per la seconda volta nel breve volgere di un decennio che il popolo italiano – nella sua parte migliore – ha scavalcato un ministero e si è dato un governo al di fuori, al di sopra e contro ogni designazione del parlamento. Il decennio di cui vi parlo sta fra il maggio del 1915 e l'ottobre del 1922. Lascio ai melanconici zelatori del supercostituzionalismo il compito di dissertare più o meno lamentosamente su ciò. Io affermo che la rivoluzione ha i suoi diritti. Aggiungo, perché ognuno lo sappia, che io sono qui per difendere e potenziare al massimo grado la rivoluzione delle "camicie nere", inserendola intimamente come forza di sviluppo, di progresso e di equilibrio nella storia della nazione. Mi sono rifiutato di stravincere e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non ti abbandona dopo la vittoria. Con trecentomila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo. Potevo fare di quest'aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto».
«Potevo, ma non ho voluto …» e così Mussolini strizza l’occhio a destra e a manca. Ai vecchi parlamentari, per dire: – Potevate finire impiccati dai miei uomini, e invece io vi concedo e garantisco ordine e legalità; per contro, si rivolge alle camicie nere, per dire: – Calma, camerati! Vi garantisco che la rivoluzione continua sia nelle istituzioni sia nella società.
Beninteso, nelle sprezzanti parole verso l’«aula sorda e grigia», che appaiono inopportune, volgari e controproducenti, c’è anche la grande mossa mussoliniana (il giornalista di razza è sempre sveglio nell’uomo di Predappio!) di collegarsi a un’antica e sempre viva corrente di antiparlamentarismo umorale, che serpeggia nella società italiana sin dagli anni dell’unità nazionale, per guadagnare così il consenso dell’uomo della strada che ha in odio i politici e la politica.
E che questo antiparlamentarismo abbia i suoi tre quarti di nobiltà, e non sia solo quello delle bettole o dei mercati, lo dimostra quanto scrisse nel 1873, ad appena dodici anni dall’unità d’Italia, una luminosa figura di combattente garibaldino, di giornalista e di politico radicale, Achille Bizzoni, al suo fraterno amico Felice Cavallotti, per indurlo a non accettare la candidatura in Parlamento, perché «il Parlamento è un sozzo porcaio, ove l’uomo più onesto ci lascia per lo meno il senso della delicatezza e del pudore».
Chissà cosa avrebbe detto il nostro Bizzoni in questi tempi!
Se poi, dal «sozzo porcaio» del Parlamento ottocentesco, passiamo al Parlamento del Novecento, allora, a parte le famose invettive d’annunziane, troviamo un Pirandello che, nel suo romanzo I vecchi e i giovani del 1913, pone in risalto il livello di immoralità politica italiana:
«Dai cieli d’Italia, in quei giorni pioveva fango, ecco, e a palle di fango si giocava, e il fango s’appiastrava da per tutto, su le facce pallide e violente degli assaliti e degli assalitori, su le medaglie già guadagnate su i campi di battaglia (che avrebbero dovuto almeno queste, perdio! esser sacre) e su le croci e le commende e su le marsine gallonate e su le insegne dei pubblici uffici e delle redazioni dei giornali. Diluviava il fango; e pareva che tutte le cloache della città si fossero scaricate e che la nuova vita nazionale della terza Roma dovesse affogare in quella torbida fetida alluvione di melma, su cui svolazzavano stridendo, neri uccellacci, il sospetto e la calunnia».
Qualunquismo ante litteram? Forse. Qualunquismo che nasce da moralismo politico e che porta acqua al mulino della reazione? Forse.
Di sicuro, la condanna morale o moralistica della politica non sorge dal nulla, ma da una condizione di degrado di una classe politica che tira a campare traccheggiando, intrallazzando e litigando sulla divisione delle poltrone e del bottino, salvo poi a compattarsi e unirsi in una tacita conventio ad excludendum contro il “nemico” che osa criticare.
D’altronde, se è giusto difendere sempre il Parlamento, non sempre è giusto difendere i parlamentari. A volte, addirittura, bisogna difendere il Parlamento non solo dai propugnatori di dittature di qualsiasi colore, ma anche da coloro che in Parlamento siedono indegnamente.
Comunque, facciamo parlare i numeri, i fatti e i misfatti: alla Camera (dove siedono solo 37 deputati fascisti su 535) il governo Mussolini – governo di larga e frammentata coalizione! – ottiene un’ampia fiducia con 316 voti favorevoli, 116 contrari e 7 astenuti.
Ripetiamo: in Parlamento ci sono solo 37 deputati fascisti, mentre Mussolini ottiene la fiducia con 316 voti a favore!
Qualche nome illustre, solo per capirci, fra i non fascisti che votano a favore: Giovanni Giolitti, Benedetto Croce e Alcide De Gasperi. Nitti abbandona l’aula per protesta.
Chi ha vinto? Ha indubbiamente vinto Mussolini. Ma ha vinto anche il re, che ha evitato una spaccatura dell’Italia e una guerra civile, risolvendo la crisi sul corretto piano parlamentare, per il momento. Hanno vinto quei cattolici, quei liberali e quegli indipendenti, che hanno votato questo governo di larga coalizione che, in quanto tale, è il loro governo.
Hanno vinto in tanti, in troppi; e troppo ammucchiati disordinatamente. 
Chi è lo sconfitto? Senza alcun dubbio il Partito Socialista Italiano, il più grande schieramento politico italiano che, alle precedenti elezioni del 1921, aveva conquistato il 24,7 % di voti, ottenendo ben 123 seggi su 535.
Una macchina da guerra arrugginita e inceppata, questo PSI, che da anni straparla di rivoluzione, di dittatura proletaria, di lotta senza quartiere contro tutti i governi borghesi, che spara cannonate a salve, incutendo paura senza vincere battaglie.
Un episodio parlamentare di allora condensa la drammatica sconfitta socialista. Giovanni Giolitti ha deciso di votare a favore del governo di coalizione presieduto da Mussolini. Durante il dibattito parlamentare, i socialisti esortano il vecchio statista piemontese alla «coerenza con i princìpi democratici» (ma i “princìpi democratici”, per i socialisti, non sono “ipocriti princìpi borghesi”?).
La replica di Giolitti non si fa attendere, ed è una sentenza storica: «Il Parlamento ha il governo che si merita... Ah, voi socialisti! Proprio voi oggi non potete parlare di coerenza. Ve l'ho detto, ve l'ho scritto e oggi ve lo ripeto: non avete avuto coraggio e per questo non siete andati al governo».
Nel giro di due anni, il governo di coalizione presieduto da Mussolini piazza tre colpi importantissimi: 1. L’istituzione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale; 2. L’approvazione della legge elettorale Acerbo; 3. La riforma della scuola attuata da Gentile.
Per quanto riguarda il nostro tema, son degni d’attenzione i primi due punti. 
Molteplici sono gli obiettivi che Mussolini intende raggiungere con l’istituzione della MVSN, Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Da un canto, irreggimentare le “squadre” delle camicie nere, dando loro un capo, una gerarchia e una disciplina; dall’altro, creare un’ulteriore forza di polizia armata, apparentemente per concorrere a “mantenere all'interno l’ordine pubblico”, ma in realtà per creare un corpo armato di fascisti, che avrebbero giurato fedeltà solo a Mussolini e non al re.
Questo iniziale progetto mussoliniano trova ovviamente l’opposizione di Vittorio Emanuele III e dei militari, per cui si giunge a una soluzione di compromesso. E cioè: con Regio Decreto del 4 agosto 1924, la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale entra a far parte delle Forze armate dello Stato, per cui le Camicie Nere prestano giuramento al re, e non al duce del fascismo, e la Milizia diviene la quarta forza armata italiana.
Resta da vedere chi ha realmente vinto in tale compromesso: forse il re, che assorbe nelle sue forze armate la Milizia, sperando di defascistizzarla? Oppure Mussolini, che introduce un suo cavallo di Troia nelle forze armate, sperando di fascistizzarle?
La partita sembra ancora aperta, ma già alla fine del 1923 Mussolini ha calato un asso che è gravido di conseguenze politiche importantissime: si tratta della legge elettorale Acerbo, entrata in vigore il 18 novembre 1923, che regolerà le elezioni politiche previste per il 1924.
Beninteso, sul piano formale e legale, la legge Acerbo è una legge elettorale maggioritaria che, come nella storia di tanti paesi democratici, può essere adottata per evitare l’ingovernabilità provocata da eccessive frammentazioni di partitini, che possono frenare, condizionare o ricattare l’attività politica di un Parlamento e di un Governo. Ciò spiega perché il Parlamento italiano approva, e il re firma, questa legge maggioritaria.
In particolare, la legge Acerbo prevede la sostituzione del sistema proporzionale con un sistema maggioritario con premio di maggioranza, all'interno di un collegio unico nazionale, suddiviso in 16 circoscrizioni elettorali. Il risultato nel collegio unico è decisivo per determinare la distribuzione dei seggi: nel caso in cui la lista più votata a livello nazionale dovesse superare il 25% dei voti validi, otterrebbe automaticamente i 2/3 dei seggi della Camera dei deputati, eleggendo in blocco tutti i suoi candidati.
In questo caso tutte le altre liste si dividerebbero il restante terzo dei seggi, sulla base di criteri simili a quelli della legge elettorale del 1919.
Per contro, nel caso in cui nessuna delle liste dovesse superare il 25% dei voti, non si assegnerebbe alcun premio di maggioranza; e la totalità dei seggi sarebbe ripartita tra le liste concorrenti in proporzione ai voti ricevuti, ancora secondo i princìpi della legge elettorale proporzionale del 1919.
Pertanto, in vista delle elezioni politiche del 1924, bisogna lanciarsi in una corsa frenetica, per superare il fatidico 25% dei voti, che ti assicura la maggioranza di due terzi dei seggi in Parlamento.
Ma, in questa corsa al voto del 1924, chi è il concorrente più agguerrito e meglio posizionato, almeno sulla carta? Guardando ai risultati delle precedenti elezioni del 1921, il favorito è indubbiamente il Partito socialista, che aveva già conquistato il 24,7% dei voti. Insomma è già posizionato a due passi dal traguardo del superamento del 25%, e quindi è il concorrente da battere o, in casi estremi, da “abbattere”.
Il clima arroventato, violento e illegale, in cui i fascisti precipitarono il paese in occasione delle elezioni del 6 aprile 1924, è cosa già consegnata alla storia. Sappiamo benissimo che, con la legge maggioritaria, il listone di Mussolini si piazza al primo posto con 355 deputati. Per gli altri schieramenti restano le briciole: 39 seggi per i Popolari di don Sturzo; 24 seggi per il Partito Socialista Unitario di Turati e Matteotti; 22 seggi per il Partito Socialista Italiano; 19 seggi per il Partito Comunista.
Pur non trascurando che, secondo la legge Acerbo, tutti i partiti piazzatisi dopo il listone fascista debbono dividersi le briciole di un terzo dei seggi rimasti a disposizione, è da notare con una certa tristezza che il vecchio Partito Socialista, scontando antichi e recenti errori politici, ottiene ora solo 22 seggi, facendosi superare dal Partito Socialista Unitario, nato dalla scissione del 1922; e facendosi tallonare dal Partito Comunista, nato dalla scissione del 1921.
Ma, come ben si sa, il fatto più grave di quel maledetto 1924 è il delitto Matteotti, che rappresenta una ferita aperta nella vita politica italiana. 
Dopo la scissione del 1922, in cui i socialisti democratici vengono espulsi dalla maggioranza massimalista del PSI, Turati e i suoi seguaci fondano il Partito Socialista Unitario, il cui segretario è il trentasettenne Giacomo Matteotti.
Il giovane Matteotti ha le idee chiare riguardo ai difetti della sinistra italiana: da un canto il massimalismo parolaio dei socialisti; dall’altro, l’intransigenza settaria e schematica dei comunisti. I due difetti favoriscono il successo del fascismo e, per conseguenza, indeboliscono il fronte antifascista: «Il nemico – afferma Matteotti – è attualmente uno solo, il fascismo. Complice involontario del fascismo è il comunismo. La violenza e la dittatura predicata dall'uno, diviene il pretesto e la giustificazione della violenza e della dittatura in atto dell'altro».
Dopo i brogli elettorali, le violenze e le illegalità nelle elezioni del 6 aprile 1924, il giovane segretario socialista Matteotti scrive a Turati, suo vecchio e autorevolissimo leader, per affermare energicamente la necessità di una netta resistenza al fascismo: «Innanzitutto è necessario prendere, rispetto alla dittatura fascista, un atteggiamento diverso da quello tenuto fino qui; la nostra resistenza al regime dell'arbitrio dev'essere più attiva, non bisogna cedere su nessun punto, non abbandonare nessuna posizione senza le più decise, le più alte proteste. Tutti i diritti cittadini devono essere rivendicati; lo stesso codice riconosce la legittima difesa. Nessuno può lusingarsi che il fascismo dominante deponga le armi e restituisca spontaneamente all'Italia un regime di legalità e libertà».
Questa lettera è il preludio della tragedia per Matteotti, per il Parlamento, e per la vecchia Italia liberale.
Il 30 maggio 1924, Matteotti prende la parola alla Camera dei deputati, per contestare i risultati delle elezioni tenutesi il 6 aprile. Mentre dai banchi fascisti (i due terzi dei deputati!) si levano contestazioni e rumori che lo interrompono più volte, egli denuncia una nuova serie di violenze, illegalità e abusi commessi dai fascisti per vincere le elezioni.
Quel discorso non lascia indifferente il fronte dell’opposizione, ma soprattutto non lascia indifferente la maggioranza parlamentare fascista. Senza dubbio, con quel risultato elettorale, il Partito fascista potrebbe permettersi il lusso di guardare dall’alto in basso il dimenarsi di un deputato dell’opposizione, che ormai abbaia contro un fatto compiuto e archiviato. Ma i fascisti intuiscono la pericolosità del discorso di Matteotti, che può chiamare alla riscossa l’opposizione in Parlamento e nel paese.
Il 10 giugno 1924, intorno alle ore 16.15, Matteotti esce di casa a piedi per dirigersi verso Montecitorio, dove aveva trascorso parte della mattinata nella Biblioteca della Camera, decidendo di percorrere il lungotevere Arnaldo da Brescia. Una squadra della polizia politica lo attende, lo carica a forza su un’auto, e lo uccide.
Dopo mesi di inutili ricerche, il cadavere di Giacomo Matteotti fu trovato casualmente, il 16 agosto 1924, in un bosco del comune di Riano.
Su questo delitto è stata giustamente scritta un’infinità di pagine. Ma ora è doveroso ricordare quel che scrisse la vedova di Matteotti al ministro degli interni Federzoni, per chiedere che al funerale non fossero presenti né uomini della Milizia né membri del partito fascista:
«Chiedo che nessuna rappresentanza della Milizia fascista sia di scorta al treno: nessun milite fascista di qualunque grado o carica comparisca, nemmeno sotto forma di funzionario di servizio. Chiedo che nessuna camicia nera si mostri davanti al feretro e ai miei occhi durante tutto il viaggio, né a Fratta Polesine, fino a tanto che la salma sarà sepolta. Voglio viaggiare come semplice cittadina, che compie il suo dovere per poter esigere i suoi diritti; indi, nessuna vettura-salon, nessun scompartimento riservato, nessuna agevolazione o privilegio; ma nessuna disposizione per modificare il percorso del treno quale risulta dall'orario di dominio pubblico. Se ragioni di ordine pubblico impongono un servizio d'ordine, sia esso affidato solamente a soldati d'Italia».
Ora facciamo un passo indietro, cioè nel periodo tra il rapimento di Matteotti e il ritrovamento del suo cadavere, perché, in quel lasso di tempo, nasce l’Aventino. Il 26 giugno 1924, circa 130 deputati dell'opposizione si riuniscono nella Sala della Lupa di Montecitorio, oggi nota come Sala dell'Aventino, decidendo di abbandonare i lavori parlamentari finché il governo non abbia chiarito la propria posizione a proposito della scomparsa di Giacomo Matteotti.
All’indomani, 27 giugno, Filippo Turati, la figura più importante dell’opposizione e del socialismo italiano, commemora Matteotti, in una sala di Montecitorio, davanti ai deputati aventiniani: «Noi parliamo da quest’aula parlamentare, mentre non v’è più un Parlamento. I soli eletti stanno nell’Aventino delle nostre coscienze, donde nessun adescamento li rimuoverà sinché il sole della libertà non albeggi, l’imperio della legge sia restituito, e cessi la rappresentanza del popolo di essere la beffa atroce a cui l’hanno ridotta».
Discorso nobile e moderato, quello di Turati, che esclude una linea di opposizione insurrezionale, e mira soprattutto a una separazione morale tra maggioranza fascista e opposizione aventiniana.
In verità, tutti, dalla maggioranza fascista e filo-fascista all’opposizione aventiniana, guardano al re. Questi, nel pieno vigore della maturità (nel 1924 ha cinquantacinque anni), non fa un passo indietro o in avanti rispetto alla sua tradizionale linea politica, che si riassume in due punti: da un canto, il rispetto, formale e sostanziale, dei diritti e dei doveri di monarca costituzionale in base allo Statuto; dall’altro, favorire ogni iniziativa in grado di evitare una guerra civile.
C’è un caso emblematico che spiega l’atteggiamento del re in questa drammatica vicenda del delitto Matteotti e della secessione aventiniana. In quei giorni, il conte Ranieri Campello presenta a Vittorio Emanuele le presunte prove della responsabilità di Mussolini nel delitto Matteotti. Pare che questa sia stata la risposta del re: «Sono cieco e sordo. I miei occhi e le mie orecchie sono la Camera e il Senato».
Ovviamente è una risposta che non soddisfa l’opposizione, e che addirittura fa gridare alla connivenza del monarca con il fascismo. Però è una risposta formalmente e costituzionalmente corretta e rispettosa dello Statuto. Insomma, in base allo Statuto, spetta bensì al Parlamento, e non già al re, sfiduciare o mettere in stato d’accusa un governo. E solo dopo l’eventuale presa di posizione del Parlamento, il re ha il dovere e il potere di intervenire.
Pertanto, visto che il Parlamento non fiata, e non sfiducia Mussolini, il re ha il dovere di essere “cieco e sordo”.
Si fa giustamente osservare al re che questa sua scrupolosa e formale osservanza dello Statuto si traduce in un appoggio politico, per lo meno oggettivo, a favore di una maggioranza parlamentare falsata dalla legge maggioritaria. Ma Vittorio Emanuele III replica che la legge maggioritaria Acerbo fu regolarmente approvata da un Parlamento, in cui addirittura i fascisti erano minoranza e il primo partito per numero di seggi era quello socialista.
Insomma, questo Parlamento è il frutto di una legge elettorale approvata dal precedente Parlamento. E quindi, nulla da eccepire sul piano legale e politico.
Addirittura il re ricorda all’opposizione aventiniana che, nel precedente Parlamento, il quale doveva approvare o respingere il disegno di legge Acerbo, prima ancora di arrivare al dibattito in aula, fu nominata una Commissione secondo il criterio democratico della rappresentanza dei gruppi parlamentari.
E perciò in quella Commissione ci stavano tutti, leggasi tutti.
Infatti, essa era composta da Giovanni Giolitti (presidente), Vittorio Emanuele Orlando per il gruppo della "Democrazia" e Antonio Salandra per i liberali di destra (entrambi con funzioni di vicepresidente), Ivanoe Bonomi per il gruppo riformista, Giuseppe Grassi per i demoliberali, Luigi Fera e Antonio Casertano per i demosociali, Alfredo Falcioni per la “Democrazia Italiana” (nittiani e amendoliani), Pietro Lanza di Scalea per gli agrari, Alcide De Gasperi e Giuseppe Micheli per i cattolici popolari sturziani, Giuseppe Chiesa per i repubblicani, Costantino Lazzari per i socialisti, Filippo Turati per i socialisti unitari, Antonio Graziadei per i comunisti, Raffaele Paolucci e Michele Terzaghi per i fascisti, e Paolo Orano per il gruppo misto.
Insomma, Vittorio Emanuele III è ancora il re del 1922; il re segnato dalla paura della rivoluzione russa, dal timore di un’ascesa al trono d’Italia del ramo Savoia-Aosta, dall’incertezza sulla fedeltà delle forze armate, e dalla certezza che la guerra civile sia il male supremo, specialmente se assume i contorni del comunismo russo.
E quel re del 1922 non dimentica, non deve dimenticare, che, alla Marcia su Roma, Mussolini non fu sostenuto solo dalle camicie nere, ma da un vasto e potente blocco culturale, politico, economico e sociale, che magari non voleva la dittatura, ma di certo voleva un uomo forte per mettere ordine nello Stato e nella società.
A tal riguardo giova considerare qualche esempio.
In una lettera del 23 aprile 1923, Francesco Saverio Nitti (un grande meridionalista, primo radicale a giungere al governo, una limpidissima coscienza democratica) scrive a Giovanni Amendola: «Io le ho scritto sinceramente il mio pensiero. Bisogna che l’esperimento fascista si compia indisturbato: nessuna opposizione deve venire da parte nostra. Io non posso aderire; ma non voglio opporre nulla. Sono più che mai convinto che fuori del mio programma non è salvezza: ma fuori di questa mia convinzione, che illumina la mia solitudine, non faccio nulla».
Ecco, tentare l’«esperimento fascista» in ambito liberal-parlamentare è la parola d’ordine non solo del grande Nitti, ma di tanti e tanti italiani, che magari non aderiscono, ma simpatizzano, e soprattutto sperano in una forte medicina, in una terapia d’urto, per riportare in salute l’Italia liberale malata. 
E qui un altro esempio clamoroso.
In un’intervista concessa al “Giornale d’Italia” il 27 ottobre 1923, Benedetto Croce non trova contraddizione tra la sua fede liberale e le sue simpatie per il governo fascista: «Nessuna contraddizione. Se i liberali non hanno avuto la forza e la virtù di salvare l’Italia dall’anarchia in cui si dibatteva, debbono dolersi di sé medesimi, recitare il mea culpa, e intanto accettare e riconoscere il bene da qualunque parte sia sorto, e prepararsi per l’avvenire. Questo il loro dovere. Ma non credo che essi abbiano altro dovere di diventare “fascisti”, cioè di vestire la personalità di uomini che hanno altro temperamento, hanno percorso diversa esperienza, e appartengono in gran numero alla generazione più giovane».
Chi rilascia questa intervista non è Giovanni Agnelli o il generale Armando Diaz, ma il più grande intellettuale italiano del Novecento.
E qualche mese prima, il 5 giugno 1923, lo stesso Croce aveva scritto a Sebastiano Timpanaro: «Per me il fascismo è il contrario del liberalismo. Ma, quando il liberalismo degenera com’è degenerato in Italia negli anni tra il 1919 e il 1922 e resta poco più di una vuota e ripugnante maschera, può essere benefico un periodo di sospensione della libertà: benefico a patto che restauri un più severo e consapevole regime liberale».
Ancora nel 1924, alcuni mesi prima del delitto Matteotti, Croce rilascia un’intervista al “Corriere italiano” del 1° febbraio 1924, in cui, vedendo nel governo fascista la medicina adatta all’Italia liberale malata, così aggiunge: «E stimo un così grande beneficio la cura a cui il fascismo ha sottoposto l’Italia, che mi do pensiero piuttosto che la convalescente non si levi troppo presto di letto, a rischio di qualche grave ricaduta».
Come si può notare, la paura che l’Italia ricada nella paura del 1919-1922, è fortissima non solo nella persona del re, ma in tantissimi italiani.
Cosa deve fare il re in quegli anni di irresistibile ascesa di Mussolini a capo del governo? Di fronte a una forte personalità, il re Vittorio Emanuele III, che a sua volta non è un debole, applica la “cura Cadorna”.
Si tratta di quella tattica che fa avanzare un potentissimo Luigi Cadorna o un pericolosissimo Benito Mussolini, purché non vengano messe in discussione l’esistenza, le prerogative e i poteri della Monarchia costituzionale italiana. Su questa linea si attesta Vittorio Emanuele III, che ricorda a Cadorna chi è il re, che sta addosso a Cadorna ogni giorno, pur senza invadere il campo del suo rigido e ombroso generale, e che attende il momento favorevole (e sarà Caporetto!) per saltargli addosso e destituirlo.
Ebbene la stessa tattica vale per il sempre più potente Mussolini. Bisogna vigilare, bisogna aspettare una mossa falsa dell’avversario. Ma, per ora, nessuna Caporetto parlamentare viene offerta al monarca, per nominare un altro al posto di Mussolini.
Bisogna dunque attendere. E l’attesa sarà lunghissima. Durerà un ventennio.

(continua)