Hai ragione da vendere, cara Myriam, nel lamentare la forzata separazione sociale in questi dolorosi e interminabili giorni di emergenza planetaria. Questa pandemia, infatti, è una vera catastrofe anche riguardo alla dimensione esistenziale. In verità, si parla sempre e giustamente dei danni economici o dei problemi socio-politici causati da questo male terribile e sconosciuto, che sta provocando la morte di tantissimi esseri umani; ma spesso si trascura lo spaventoso black-out che ha improvvisamente spento le nostre energie, che ha interrotto il nostro fare, il nostro lavoro, le nostre abitudini, i nostri affetti. Un inaspettato oscuramento è calato su ciascuno di noi, generando trepidazione per i parenti lontani, assalti di angoscia, slavine d’incertezza, paura della morte.
Quando torneremo alla normalità? Presto … e intanto diviene normale l’anormalità.
Hai dunque ragione. Però, non dobbiamo perdere il nostro discernimento e, soprattutto, non dobbiamo confondere l’isolamento con la solitudine. Ti cito un caso emblematico: nel 1756 Jean-Jacques Rousseau lascia il disordine e la confusione di Parigi, per rifugiarsi in campagna, a Montmorency, nella speranza di cogliere quella pace interiore che nella babele parigina non era dato trovare. Il Ginevrino anela alla solitudine come condizione privilegiata di serenità dell’animo e di colloquio intimo con se stesso e con la natura. Purtroppo, mentre assapora le dolcezze della dea Solitudine, Rousseau ha pure la sventura di conoscere il volto laido e demoniaco del dio Isolamento: infatti, col passare del tempo, gli amici che risiedono a Parigi lo criticano, lo escludono dalla loro cerchia affettiva, lo emarginano, lo isolano e gli stendono attorno un cordone di derisione e di disprezzo, che presto si trasformerà in un capestro micidiale.
Ecco, nel caso di Rousseau, la solitudine è intesa e vissuta come una moderna fuga mundi da parte di un’anima sensibile, che non si sente affatto un’isola. Insomma la sua solitudine, che certamente è dialogo con la natura, non è però assenza di socialità, poiché la lontananza dalla societas hominum, la società degli uomini, non esclude anzi rinsalda i legami con la societas entium, la società degli enti.
Intendiamoci, però! Da un altro punto di vista – e qui ti chiedo ancora di distinguere – la solitudine si mostra nel suo aspetto demoniaco, come dimora del nulla e come trionfo della morte. Da questa prospettiva, oggi la mente corre subito a chi, in assoluta solitudine, è morto o sta morendo in un reparto di terapia intensiva. È terribile, ma purtroppo è così: oggi il malato va a combattere in solitudine contro il maledettissimo virus; e in solitudine va a morire. Può essere circondato e sorretto da un’équipe sanitaria di alto livello, ma è e dev’essere in solitudine.
Ma tu presta attenzione a quest’altro particolare: da moltissimo tempo, rispetto al caso emblematico di Rousseau, il rapporto isolamento/solitudine si è capovolto. Se per un attimo escludiamo la particolarissima vicenda della pandemia, e guardiamo a volo d’uccello almeno agli ultimi cinquant’anni, possiamo ben dire che pochi avvertono l’isolamento; mentre moltissimi soffrono la solitudine.
Ad esempio, andiamo in una discoteca, dov’è ben vero che si scoppia di “socialità”, e anche di droga e superalcolici; e tuttavia un buon numero di quelle danzatrici e di quei danzatori, che si dimenano per il dio Bacco più che per la musa Tersìcore, sono la disperata rappresentazione plastica della solitudine. Oppure andiamo in un ufficio, dove regna tanta socialità e tanta cortesia fra colleghi di lavoro; e tuttavia qualcuno di loro avverte la fredda solitudine di chi si sente un estraneo in un festoso teatro della vanità e della maschera. Andiamo infine in una casa di riposo (che io m’intestardisco a chiamare “ospizio per vecchi”), dov’è ben vero che gli anziani trascorrono la giornata nella socialità dei coetanei e degli infermieri; e tuttavia non si può negare che molti di loro, dopo essere stati sbolognati dai figli, lentamente muoiono nel dolore e nella solitudine. In breve, si usa e si abusa del verbo “socializzare”, ma stiamo gelando di solitudine.
Ma cos’è la solitudine? Si direbbe la condizione di chi è solo. Troppo facile e banale. La solitudine è la malattia di un’anima vuota o svuotata. Nel vuoto si annida spesso quel desiderio di morte, quella pulsione razionalmente incomprensibile ma non assurda, che spinge all’autodistruzione non solo il vecchio che si lascia morire nelle braccia della solitudine, ma anche il giovane che, giocando con il nulla e sfidando spavaldamente la morte, si fa lentamente soffocare nelle spire del serpente della solitudine.
A questo punto io vorrei riferirmi alla tua seria riflessione, che ha collegato l’idea di morte all’esplodere di questa pandemia. Sono d’accordo con te: in questi mesi dolorosi, in cui il numero delle vittime cresce vertiginosamente in tutto il pianeta, siamo costretti a fare i conti con la morte. Forse prima non moriva nessuno? Tutt’altro. Ogni giorno eravamo tempestati da notizie luttuose: vittime di incidenti aerei, ferroviari, stradali, vittime sul lavoro, vittime del sabato sera, vittime travolte da auto guidate spesso da gente sotto gli effetti di alcol o droga; per non parlare degli omicidii e dei femminicidii. Alla ricezione di tali notizie, senza dubbio non restavamo indifferenti né banalizzavamo gli eventi luttuosi, ma quasi sempre lo shock non durava molto e non andava in profondità. Generalmente leggevamo o ascoltavamo quei bollettini di guerra con commozione, ma anche con l’intima sicurezza di colui che sta non già fra i pericoli mortali della trincea, bensì nella quiete delle retrovie.
Ora è tutto diverso, mia cara. Ora siamo tutti in trincea! Ora, obtorto collo, torniamo a riflettere sul destino dell’uomo, sulla precarietà della nostra vita, sul nulla che parimenti incombe sia sugli umili progetti dei poveri sia sui superbi disegni dei grandi. Ora ci accorgiamo che non siamo onnipotenti; e che, in qualunque momento, possiamo essere trascinati dal vento irresistibile della morte. E, a tal proposito, nulla risulta più bello e più vero e più appropriato dei versi divini del divino Omero, nel VI libro dell’Iliade:
Quale delle foglie,
Tale è la stirpe degli umani. Il vento
Brumal le sparge a terra, e le ricrea
La germogliante selva a primavera.
Così l’uom nasce, così muor.
Foglie noi siamo; che prima verdeggiano, e poi ingialliscono, e poi cadono. Foglie noi siamo; che il gelido vento d’inverno disperde e sparge sul grembo della madre terra, per rinascere a primavera. Foglie noi siamo, in balìa della ruota dell’essere e del non essere, della vita e della morte. E il nostro padre Omero, che canta gli eroi immortali, volge l’occhio e sospira sull’incessante ciclo di vita e di morte che involge e trae a sé le umane vicende. Fatale e inarrestabile è il succedersi delle stagioni e nella natura e nella «stirpe degli umani».
Ma la ciclicità di vita e di morte si dissolve nel destino dell’individuo, su cui incombe la morte come nulla. A tal proposito, paradigmatico è l’episodio narrato nell’XI libro dell’Odissea, dove Omero canta la discesa di Ulisse ancora in vita nell’Ade, nel regno dei morti, nel mondo delle ombre. Qui il Laerziade incontra, tra gli altri, l’ombra del più grande degli eroi greci: il semidio Achille. E a lui, trascurando l’abissale differenza fra il mondo dei vivi e quello delle ombre, l’eloquente e spesso bugiardo Ulisse si rivolge per consolarlo, esaltando il primato del Pelìde sia nella vita terrena sia nel sotterraneo regno dell’Ade. Ma l’ombra del pelìde Achille risponde al vivente Ulisse che non c’è nulla e nessuno da consolare: chi era il primo degli Achei, onorato come un dio, ormai è un’ombra nel regno delle ombre. E talmente incommensurabile è il valore della vita rispetto al nulla della morte, che egli, colui che fu il grande Achille, preferirebbe essere l’ultimo dei guardiani di porci al servizio di un bifolco, piuttosto che essere il re del mondo delle ombre.
Non consolarmi della morte, a Ulisse
Replicava il Pelíde. Io pria torrei
Servir bifolco per mercede a cui
Scarso, e vil cibo difendesse i giorni,
Che del Mondo defunto aver l’impero.
Qui, alla sapienza omerica sembra corrispondere la sapienza dello scrittore biblico: vanitas vanitatum et omnia vanitas. Vanità delle vanità: tutto è vanità – va martellando Qoelet. E le affinità della sapienza biblica con quella omerica si aprono a più ampi risvolti, quando, secondo Qoelet, tutto soggiace all’incessante ciclicità di un divenire che involge la categoria dell’identità e quella della diversità: Quel che è stato sarà / e quel che si è fatto si rifarà; / non c’è niente di nuovo sotto il sole.
Tu dici bene quando, a proposito di questa pandemia e della morte, richiami Petrarca che dolorosamente canta la morte di Laura per la peste del 1348. Nel Triumphus mortis, Laura incontra la Morte, «una donna involta in veste negra» che rappresenta la peste, che è venuta per rapirla. Al cospetto della Morte, la risposta di Laura è serena ed esprime un’umile sottomissione alla volontà divina: «Come piace al Signor che ’n cielo stassi / et indi regge e tempra l’universo, / farai di me quel che degli altri fassi».
Indi la Morte strappa il fiore della vita di Laura, strappandole un biondo capello.
Allor di quella bionda testa svelse
Morte co la sua mano un aureo crine:
così del mondo il più bel fiore scelse,
non già per odio, ma per dimostrarsi
più chiaramente ne le cose eccelse.
Qui, con l’immagine della Morte che strappa a Laura «un aureo crine», permettimi di navigare a ritroso sino al IV libro dell’Eneide, dove Virgilio, nel descrivere la morte dell’infelice e innamorata Didone, ci rappresenta Iride che pone fine alla straziante agonia della regina di Cartagine, strappandole uno dei suoi biondi capelli.
Iride rugiadosa con crocee penne,
nel cielo traendo mille vari colori dal sole,
discese e le si fermò sul capo: «Questo, comandata, reco
sacro a Dite. Da questo tuo corpo ti sciolgo».
Dice così, e con la destra tronca il capello: d’un tratto
tutto il calore svanì, e la vita dileguò nei venti.
Sta pure qui l’affinità estetica tra Virgilio e Petrarca. Ma, quanta differenza tra la follia suicida della carnale e innamorata e maledicente Didone e l’angelica serenità con cui la celestiale Laura accetta la morte provocata dalla peste!
Col nostro grande poeta aretino torna il tema della vanitas che ha animato la cultura pagana e quella ebraica: infatti, al sopraggiungere della Morte accanto a Laura, appare l’impressionante spettacolo della campagna piena di morti. Quella «turba magna» di morti è una folla immensa di gente che un tempo fu colma di ricchezze, di onori e di vesti regali, ed ora è povera e nuda. Un tempo, essi furono i potenti della terra – re, imperatori, vescovi e papi – ed ora sono nulla.
Essi furono considerati felici; ma ora, svelata la vanità delle glorie umane e dei beni terreni, sono un miserando nulla.
Ivi eran quei che fur detti felici,
pontefici, regnanti, imperadori;
or sono ignudi, miseri e mendici.
U’ sono or le ricchezze? u’ son gli onori
e le gemme e gli scettri e le corone
e le mitre e i purpurei colori?
Sembra qui riecheggiare il passo dell’Apocalisse 3, 17: «Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo». E Petrarca incalza: a che vale affannarsi per accumulare, in questo effimero mondo dell’apparenza e della caducità, ricchezze, onori e potere, quando poi alla fine quella donna nerovestita, che chiamiamo Morte, spazza via tutto e lascia solo la nuda realtà dello scheletro del Nulla? Tutto è vanità.
O ciechi, el tanto affaticar che giova?
Tutti tornate a la gran madre antica,
e ’l vostro nome a pena si ritrova.
Pur de le mill’ è un’utile fatica,
che non sian tutte vanità palesi?
Chi intende a’ vostri studii sì mel dica.
Vale la pena – si chiede Petrarca – sottomettere i popoli stranieri, far loro versare lacrime e sangue, quando poi la morte svela la stoltezza e la vanità di ogni scettro e di ogni tesoro? Vale la pena, quando, svelata la vanità delle cose, ci sembra preferibile una vita semplice e serena, fatta di acqua e pane?
Che vale a soggiogar gli altrui paesi
e tributarie far le genti strane
cogli animi al suo danno sempre accesi?
Dopo l’imprese perigliose e vane,
e col sangue acquistar terre e tesoro,
vie più dolce si trova l’acqua e ’l pane
Ma, la morte ha pure il sopravvento sull’amore? Un amore che non è legato esclusivamente al corpo che non solo invecchia ma addirittura muore, un simile amore può sopravvivere alla morte? Su questa capitale questione, Petrarca chiede lumi all’anima di Laura.
Et io: - Al fin di questa altra serena
ch’ha nome vita, che per prova il sai,
deh, dimmi se ’l morir è sì gran pena.-
Rispose: - Mentre al vulgo dietro vai
et a la opinïon sua cieca e dura,
esser felice non puoi tu già mai.
La morte è fin d’una pregione oscura
a l’anime gentili; a l’altre è noia,
ch’hanno posto nel fango ogni lor cura.
Et ora il morir mio, che sì t’annoia,
ti farebbe allegrar, se tu sentissi
la millesima parte di mia gioia
In questi versi petrarcheschi, Platone è ben presente con il concetto di morte come «fin d’una pregione oscura», la fine della prigionia nel carcere del corpo. Ma quando si tratta di amore, il poeta abbandona la dimensione concettuale e s’immerge nella dimensione sentimentale e personale. In altri termini, è bensì Francesco, e non già Petrarca, che chiede alla sua amata Laura non lumi sul concetto di amore, ma verità sul sentimento d’amore tra loro due.
Deh, madonna, - diss’io - per quella fede
che vi fu, credo, al tempo manifesta,
or più nel volto di chi tutto vede,
creovvi Amor pensier mai ne la testa
d’aver pietà del mio lungo martire,
non lasciando vostr’alta impresa onesta
E la risposta di Laura non si fa attendere:
A pena ebb’io queste parole ditte,
ch’io vidi lampeggiar quel dolce riso
ch’un sol fu già di mie virtuti afflitte.
Poi disse sospirando: - Mai diviso
da te non fu ’l mio cor, né già mai fia;
ma temprai la tua fiamma col mio viso,
perché a salvar te e me null’altra via
era e la nostra giovenetta fama;
né per ferza è però madre men pia
Qui l’amore di Laura per Francesco («Mai diviso / da te non fu ’l mio cor, né già mai fia») si apparenta con l’amore della dantesca Francesca per Paolo: «questi, che mai da me non fia diviso».
Come vedi, il nostro discorso chiama in causa il mondo dell’arte, della poesia, che ha cantato la vanità e la caducità delle umane cose. E in questa prospettiva estetico-filosofica permettimi di andare in piena età barocca, in quel XVII secolo che vide il trionfo della morte in Europa con la Guerra dei Trent’anni e con la peste, in quel Seicento che Manzoni immortalò con immagini grandiose come la peste del 1630 nel ducato di Milano.
In primo luogo, andiamo nella Francia del Grand Siècle e osserviamo il dipinto Natura morta con teschio (1671) del pittore francese Philippe de Champaigne. Su uno sfondo vuoto e scurissimo si staglia un basamento chiaro su cui stanno un fiore, un teschio e una clessidra. La raffinata semplicità, anche se alquanto algida, di questo quadro pone al centro e in primo piano il teschio che, attraverso le vuote occhiaie, ci fissa e ci rivolge l’antico ammonimento: memento mori, ricordati che devi morire! E il teschio simboleggia quella che gli scolastici medievali definivano la ipseitas, l’identità dell’essere individuale con se stesso: ipseità come residuo di un processo vitale, ipseità come fatale parabola di una vita che sorge dalla polvere e alla polvere ritorna con la morte. Pulvis es et in pulverem reverteris, polvere tu sei e in polvere ritornerai – sentenzia la maledizione di Dio su Adamo e la sua discendenza (Genesi 3, 19).
Fin troppo evidente la simbologia della clessidra con l’inarrestabile scorrere del tempo. Molto bella è la rappresentazione del tulipano in un vasetto di vetro pieno d’acqua. Vita hominum flos est, la vita degli uomini è come un fiore! I morbidi petali simboleggiano la caducità di una bellezza destinata a sfiorire: una fragilità che si cala nella fragilità del vasetto di vetro. Bella e triste rappresentazione della vanitas, nel gusto raffinato ed elegante di questo pittore francese impregnato di austero giansenismo.
Passiamo ora alla Spagna barocca del Siglo de Oro, per contemplare il quadro Finis gloriæ mundi di Juan de Valdés Leal. In questo quadro del 1672, che coniuga lo spirito moderno con quello medievale, il pittore spagnolo trasfigura liricamente il concetto di vanitas in tre personaggi, appartenenti a tre diverse classi sociali, ma tutti accomunati dalla morte. Mentre un’inquietante luce purpurea incombe sulla scena, in primo piano spicca una ricca bara scoperchiata, dove giace il cadavere di un vescovo, come tipico esempio di una grande potenza appartenente alla classe sociale medievale degli oratores, cioè del clero. Avvolto in una maestosa cappa che lascia intravedere gli arti inferiori dello scheletro, il vescovo indossa una ricca mitra sul teschio orrendo, e fra le mani incrociate sul petto tiene il preziosissimo bastone pastorale. Su tutto il personaggio domina un pallido colore di morte.
In secondo piano, a fianco del vescovo, quasi ai suoi piedi, giace il cadavere di un uomo d’arme, un nobile appartenente alla classe dei bellatores, ossia dei guerrieri. Avvolto in un drappo con le insegne dell’ordine cavalleresco a cui apparteneva, questo cadavere rappresenta il potere politico-militare che, nella visione medievale, doveva stare al di sotto di quello della Chiesa. Poi in fondo, in una poverissima bara, giace per ultimo un anonimo scheletro senza insegne e senza vesti, che rappresenta la classe dei laboratores, servi, artigiani o contadini. Accanto a lui, crani sparsi e ossame insepolto. In questo macabro trionfo della morte, tutte le insegne del potere marciscono, tutte le differenze sociali spariscono, tutti i corpi imputridiscono, e tutto narra la fine della gloria del mondo, che in effetti era vanagloria! In quella luce purpurea, tutto è immobile e senza tempo, sfatto e dominato dalla rigidità della morte.
Su questa stessa linea tematica andiamo nella Spagna degli inizi dell’Ottocento, e precisamente durante la lunga guerra d’indipendenza spagnola contro l’impero napoleonico, quando Francisco Goya realizza una serie di 82 incisioni intitolata Los desastres de la guerra. L’incisione n. 69 di tale serie rappresenta qualcosa di spaventoso: su uno sfondo scuro e confuso, dove s’intravede a stento una folla di personaggi, si staglia un orrendo cadavere che con una mano cerca di spostare la lastra che copre la sua tomba e, con l’altra, stringe un cartiglio contenente questa iscrizione: nada, nulla. Ecco, con Goya, il regno del Nulla si rivela non solo dopo la morte, ma anche prima, ossia durante la vita, come nulla-vanità. Si appanna così la nozione di Essere, giacché se dopo la morte l’essere cede il campo al nulla, è pur vero che, in questa vita, l’essere è offuscato dall’apparire, dall’illusione, dalla vanità.
Su questa nostra linea di riflessione saltellante e frettolosa in merito al tema della vanitas, vorrei invitarti a por mente al doloroso scetticismo di Leopardi. A Firenze, il grande Recanatese vive una storia d’amore non corrisposto; egli culla la più grande illusione che l’uomo possa mai provare: l’amore. S’illude, spera, sogna, combatte, ma poi si arrende alla dolorosa verità.
Nella lirica del 1833, A se stesso, egli parla allo stanco suo cuore e, nel posare l’occhio sull’«infinita vanità del tutto», gli dice di cessare per sempre dalle pene d’amore, perché la vita è dolore e noia, e il mondo è fango.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla, e fango è il mondo.
T’acqueta ormai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Ormai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanità del tutto
Nella spaventosa prospettiva dell’«infinita vanità del tutto», a cosa si riduce la nostra vita, con i suoi sogni, i suoi progetti, i suoi affanni, le sue gioie e i suoi dolori? Nel Canto notturno di un pastore errante nell’Asia, Leopardi ci risponde che la vita umana è come un «vecchierel» che, dopo immense fatiche e penosi sentieri, conclude il suo cammino precipitando nel nulla, in un «abisso orrido, immenso», dov’egli tutto dimentica per sempre
Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, a la tempesta, e quando avvampa
L’ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
È la vita mortale
Di fronte a quest’orrendo abisso leopardiano, dove la nera morte inghiotte tutto nel silenzio e nel disfacimento della materia, ti confesso che mi è più vicino il Foscolo del sonetto Alla sera, dove il «nulla eterno» della morte è desiderato, atteso e accolto come quella «fatal quiete», che pone fine agli affanni di una vita tormentata.
Forse perché della fatal quïete
Tu sei l’immago a me sì cara, vieni,
O Sera! E quando ti corteggian liete
Le nubi estive e i zeffiri sereni,
E quando dal nevoso aere inquiete
Tenebre, e lunghe, all’universo meni,
Sempre scendi invocata, e le secrete
Vie del mio cor soavemente tieni.
Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
Che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
Questo reo tempo, e van con lui le torme
Delle cure, onde meco egli si strugge;
E mentre io guardo la tua pace, dorme
Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.
La giornata della vita conosce la tristezza della sera, che preannuncia il nulla della notte. E ti confesso che prepotente mi torna alla memoria il grande Catullo; e affiorano sulle mie labbra i suoi immortali versi Vivamus mea Lesbia, atque amemus.
Viviamo, mia Lesbia, e amiamo
e ogni mormorio perfido dei vecchi
valga per noi la più vile moneta.
I giorni possono morire e poi risorgere,
ma quando muore il nostro breve giorno,
una notte infinita dormiremo.
Tu dammi mille baci, e quindi cento,
poi dammene altri mille, e quindi cento,
quindi mille continui, e quindi cento.
E quando poi saranno mille e mille
nasconderemo il loro vero numero,
che non getti il malocchio l'invidioso
per un numero di baci così alto
A Catullo dobbiamo tornare. E con Catullo voglio concludere questa mia lettera, perché, al di là del bellissimo e travolgente trionfo di giovinezza e di amore, il poeta latino ci riporta al confronto fra i giorni – i soles di una scansione temporale che alterna incessantemente la luce diurna alle tenebre notturne – e il breve giorno, brevis lux, dell’esistenza individuale. Dopo la sera e la notte, torna a risplendere il sole. Ma, dopo la sera dell’individuo, ci attende una notte infinita: una notte infinita in cui dormiremo, giacendo per sempre sul letto muto e freddo di Thanatos, e sognando pure di giacere con la persona amata sul letto caldo e sfatto di Eros, per sempre.