VITTORIO EMANUELE III
QUEL PICCOLO RE
(Parte III)
In un primo momento sembra, si spera, che il delitto Matteotti possa travolgere il governo Mussolini. Ma storicamente dobbiamo prendere atto che è una vana speranza quella degli uomini che costituiscono l’opposizione anti-mussoliniana. E non tanto perché essa è opposizione “aventiniana” (dentro o fuori il Parlamento ormai non fa differenza!), ma perché è opposizione di uno schieramento politico già irrimediabilmente sconfitto nel 1922.
In quell’anno, infatti, Mussolini salda uno storico arco di alleanze politiche, sociali, economiche e culturali. E quell’arco di alleanze – che oltre tutto produce una illiberale convergenza (beninteso, convergenza, mai identità) fra le forze armate e lo squadrismo, fra la Corona e un partito politico, fra il popolo italiano e il suo messia in camicia nera – quell’arco si andrà fortificando con gli anni, sino a trovare consensi sempre più vasti in campo nazionale e internazionale.
Stiamo un attimo al campo internazionale, dove in poco tempo Mussolini acquista la statura di uno statista rispettato e stimato.
Dopo la fine della prima guerra mondiale, dopo le delusioni e i rancori per la “vittoria mutilata”, circola un’aria nuova in Europa rispetto all’ottusa e spietata politica antitedesca della Francia. Infatti, gli anni Venti sono gli anni in cui l’Impero britannico prende l’iniziativa per un’opera di pacificazione europea. Sono gli anni in cui domina l’esprit de Locarno, che porterà alla conferenza di Locarno (5-16 ottobre 1925), e poi alla firma dei relativi accordi, il 1° dicembre 1925, a Londra.
Mussolini percepisce il nuovo vento inglese che spira sull’Europa. Egli coglie l’occasione storica di collocarsi a fianco della Gran Bretagna, in ciò trovando il pieno favore di Vittorio Emanuele III, che non ha mai digerito le ottocentesche simpatie italiane per la Germania, e che sempre manterrà la sua inclinazione filo-britannica. E si può ben dire che, per Mussolini, l’«uomo della Provvidenza» è ora il grande ministro degli esteri inglese Joseph Austen Chamberlain.
Costui, che dirigerà la politica estera dell’Impero britannico dal 1925 al 1929, è l’anima di quella Conferenza di Locarno, che gli varrà il Nobel per la pace nel 1925 e che porterà a promuovere una conciliazione franco-tedesca, favorendo gli approcci del ministro degli Esteri tedesco Gustav Stresemann per una garanzia britannica dei confini occidentali della Germania.
Ed è proprio Joseph Austen Chamberlain che offrirà un’occasione storica a Mussolini, chiamandolo a partecipare, nell’ambito degli accordi di Locarno, al Patto Renano, siglato il 16 ottobre 1925 a Locarno, dai rappresentanti di Germania, Belgio, Gran Bretagna, Italia, Polonia e Cecoslovacchia.
Per la precisione, questi furono i firmatari del Patto Renano: Hans Luther, Gustav Stresemann, Emile Vandervelde, Aristide Briand, Austen Chamberlain, Benito Mussolini, Aleksander Skrzyński, Edvard Beneš.
Fratello maggiore di Arthur Neville Chamberlain (il futuro primo ministro britannico ai tempi dell’Accordo di Monaco nel 1938), Joseph Austen Chamberlain è il demiurgo del riavvicinamento tra il governo conservatore britannico di Stanley Baldwin e il governo italiano di Benito Mussolini. Basti pensare che Joseph Austen Chamberlain incontrerà personalmente Mussolini ben quattro volte, dando a quest’ultimo la possibilità di accrescere il peso e il prestigio dell’Italia in campo internazionale.
Per avere un’idea della cordiale intesa fra Italia e Gran Bretagna, un solo esempio: nel luglio 1925, un accordo promosso da Joseph Austen Chamberlain permette all'Italia fascista di annettere territori fino ad allora appartenenti al Kenya del Regno Unito. Poi, nell'aprile del 1926, le due potenze coloniali accetteranno di estendere le loro zone d’influenza a spese dell'Etiopia.
Com’è chiaro, sono ben lontani i tempi della futura politica coloniale fascista in aperta rottura con l’Impero britannico. Purtroppo gli anni Trenta travolgeranno i sogni e l’esprit de Locarno con due eventi storicamente nefasti: nel 1933, Hitler arriva al potere in Germania; nel 1935, Mussolini si lancia nell’avventura etiopica, alla ricerca dell’Impero e nell’inesorabile tendenza ad allontanarsi dalla Gran Bretagna, per cadere fra le braccia di Hitler.
In questi anni Trenta, Mussolini sembra toccare l’apice del successo e della popolarità. Addirittura, raggiunto stabilmente il potere in Italia, egli cerca ora la potenza, e s’illude di esercitare una politica da Grande Potenza mondiale, sfidando l’Impero britannico e scivolando gioiosamente fra le spire del serpente nazista, che lentamente ma inesorabilmente lo stritolerà.
E mentre Gran Bretagna e Germania corrono ad armarsi seriamente in vista di una grande guerra (si pensi che, dal 1934 al 1937, il premio Nobel per la pace Joseph Austen Chamberlain sarà, con Winston Churchill, Roger Keyes e Leo Amery, la voce più autorevole che chiederà il riarmo britannico di fronte alla crescente minaccia della Germania nazista), Mussolini si svena prima in Africa e poi in Spagna, impegnando un esercito ricco di atti eroici individuali, ma eternamente male armato, impreparato e disorganizzato.
Comunque bisogna dire che, negli anni Trenta, la grandeur mussoliniana si esprime anche nel campo artistico con personalità come l’architetto Marcello Piacentini o il pittore Mario Sironi. Tante città mostrano i segni dell’urbanistica fascista, per non parlare di Roma che, accanto alla Roma dei papi e all’antica Roma imperiale, vede nascere una Roma dell’era fascista, in cui il razionalismo architettonico si fonde col monumentalismo e con la volontà “rivoluzionaria” di cambiamento.
E mentre Hitler, nel 1937 a Monaco, con la “Mostra dell’Arte degenerata”, dà una forte indicazione, anzi un ordine categorico, su cosa è arte e cosa non lo è, mostrando chiaramente quali artisti “degenerati” non avrebbero trovato posto nella “cultura” nazista; Mussolini lascia che mille fiori sboccino sul prato dell’arte italiana: «Dichiaro – dirà il duce – che è lungi da me l’idea di incoraggiare qualche cosa che possa assomigliare all’arte di Stato. L’arte rientra nella sfera dell’individuo».
Ovviamente, come in qualsiasi blocco culturalmente egemonico (anche in quelli democratici!), esiste un “controllo” e un “filtro” dell’informazione e dell’arte. Basti pensare alla organizzazione dei premi letterari, dei premi cinematografici, all’editoria, alla cinematografia, ecc., per avere un’idea di egemonia.
Però, in una dittatura, il “controllo” diventa censura, intervento poliziesco, emarginazione. Sta di fatto, tuttavia, che l’arte fascista possiede una vitalità e un carattere peculiare, che la distinguono rispetto alla lugubre arte nazista o alla pesantissima arte stalinista.
Importanti e cruciali sono gli anni Trenta per l’Italia. E quando gli italiani cantavano con Carlo Buti la popolarissima canzone “Faccetta nera”, in Europa si portava a compimento il capolavoro di quegli anni bui: l’Asse Roma-Berlino, cioè l’intesa stipulata il 24 ottobre 1936 tra l’Italia fascista e la Germania nazista, che porterà, da lì a pochi anni, alla seconda guerra mondiale.
Purtroppo, con l’Asse Roma-Berlino tramonta la politica filo-britannica caldeggiata da Vittorio Emanuele III, e crescono gli attriti e i dissensi fra la Corona e il Regime.
Ma torniamo alla politica italiana, e precisamente all’opposizione antifascista dell’Aventino. Pur nella varietà e nella disomogeneità degli aventiniani, nel complesso l’Aventino può vantare una superiorità morale e culturale rispetto ai deputati fascisti. Ma, sul piano politico, gli aventiniani sono deboli e sconfitti.
Sono deboli e sconfitti, non tanto perché storditi dal delitto Matteotti, quanto perché hanno perduto il vitale rapporto con la società italiana. Sono una bella élite. Sono un’eroica minoranza, incapace di capire che la maggioranza a favore del governo Mussolini non sta solo in Parlamento, ma sta via via crescendo nel Paese.
Alcuni di loro dovrebbero recitare il mea culpa per come hanno agito dal 1919 in poi, spaventando mezza Italia con una mezza rivoluzione fatta a colpi di slogan altisonanti sulla dittatura proletaria, sullo Stato borghese, sull’internazionalismo operaio, sull’irrisione delle idee “borghesi” di nazione, di patria, di libertà, perché, invece, per loro, la vera patria è il partito, la vera nazione è la Terza Internazionale, la vera libertà è la libertà proletaria della Russia comunista.
Si può capire il sogno della Rivoluzione russa di alcuni giovani come il liberale Piero Gobetti o il comunista Antonio Gramsci. Ma i socialisti, quelli che guidavano uno dei più gloriosi partiti italiani, e controllavano la Camera del Lavoro, quei socialisti felici e contenti d’impallinare in Parlamento qualunque “governo borghese”; quei socialisti che, facendo cadere il governo Nitti nel 1920, ebbero la gioia di proclamare: «Siamo lieti di trovarci di fronte ad altro governo di coalizione borghese, perché ancora e sempre il nostro bersaglio non sarà l'uno o l'altro partito, ma tutti i partiti borghesi. E faremo altrettanto contro i governi che si ergeranno a sostituire l'attuale»; quei socialisti che, aizzati dal compagno massimalista Mussolini, nel 1912 cacciarono malamente dal partito i compagni Ivanoe Bonomi, Leonida Bissolati e Angiolo Cabrini, perché colpevoli di essere andati a far visita al re (orrore!), che aveva subìto un attentato; quei socialisti non sono stati sconfitti, ma si sono politicamente suicidati.
Quei socialisti non hanno capito che, scimmiottando la Russia bolscevica, minacciando ogni giorno di dare l’assalto al Palazzo d’Inverno, progettando la fine del capitalismo e della proprietà privata, sparando cannonate di slogan, hanno instaurato la Grande Paura negli anni 1919-1922 e hanno provocato una “santa alleanza”, che attraversa trasversalmente tutti i ceti politici, economici e sociali dell’Italia.
Vai a spiegare al “borghese” che il treno non parte, perché il sindacato ha proclamato uno sciopero politico per la pace e contro la guerra. Vai a spiegare al “borghese” che la produzione è bloccata, perché la classe operaia dell’azienda sta in assemblea da giorni. Vai a spiegare al contadino, che è sopravvissuto alla trincea, e torna a casa in preda alla fame e senza lavoro, vagli a spiegare che i proletari delle industrie pesanti non sono andati al fronte, perché fabbricavano cannoni.
I cannoni? Ma non avevate detto che gli operai erano contro la guerra, giacché la guerra è affare di “lor signori”, affare degli imperialisti? E mentre io, che avevo dovuto lasciare la campagna, ricevevo un miserabile soldo in trincea con la divisa, con la morte e con la corte marziale che mi stavano addosso, l’operaio delle fabbriche di guerra stava invece lontano dalla trincea, aveva la pelle al sicuro, e prendeva un salario superiore al mio miserabile soldo.
Un bel giorno una spiegazione bisogna pur dargliela al borghese e al contadino. Un bel giorno una spiegazione bisogna pur darla a se stessi, sul perché crolla il consenso politico degli italiani.
E se crolla il consenso politico, devi avere il coraggio o di fare seriamente la rivoluzione sulla testa dei borghesi e dei contadini, o di fare battaglie parlamentari. Non puoi stare eternamente con un piede sul cannone caricato a salve e un piede sulla scheda elettorale. Devi scegliere. Anzi, dovevi scegliere molto tempo prima.
E cade come una pietra tombale, su quei socialisti, il rimprovero di Giolitti, mentre si votava la fiducia al governo Mussolini nel 1922: «Ah, voi socialisti! Proprio voi oggi non potete parlare di coerenza. Ve l'ho detto, ve l'ho scritto e oggi ve lo ripeto: non avete avuto coraggio e per questo non siete andati al governo».
Per disgrazia del partito socialista, e soprattutto dell’Italia, l’Aventino di quei socialisti cominciò molti anni prima, quando si chiusero in un isolamento tanto splendido quanto sterile. E stavano in Parlamento e agitavano il vessillo della rivoluzione, senza mai decidersi o per la democrazia parlamentare o per la rivoluzione proletaria. E la storia condannò quell’imbelle socialismo italiano con le terribili parole dell’Apocalisse: «Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca».
Ormai è troppo tardi! Malgrado il delitto Matteotti e la secessione parlamentare dell’Aventino, il governo Mussolini non solo ha attraversato indenne la crisi, ma addirittura, agli inizi del 1925, passa dalla fase “autorevolmente forte” alla fase autoritaria, per poi sfociare nella dittatura.
Con il famoso discorso del 3 gennaio 1925, dopo il delitto Matteotti, Mussolini rivendica la paternità della politica del suo governo e lancia una sfida al Parlamento. Egli non chiede un voto di fiducia, cioè un voto politico. Egli chiede di più. Chiede al Parlamento di pronunciarsi per un atto di accusa contro il suo governo, in base all’art. 47 dello Statuto, e, per conseguenza, di tradurre tutti i membri del governo dinanzi all’Alta Corte di Giustizia.
«Un discorso di siffatto genere – afferma Mussolini – può condurre e può anche non condurre ad un voto politico. Si sappia ad ogni modo che io non cerco questo voto politico. Non lo desidero: ne ho avuti troppi. L’articolo 47 dello Statuto dice: “La Camera dei deputati ha il diritto di accusare i ministri del re e di tradurli dinanzi all’Alta corte di giustizia”. Domando formalmente se in questa Camera, o fuori di questa Camera, c’è qualcuno che si voglia valere dell’articolo 47».
La domanda è solenne ma retorica, giacché un Parlamento a stragrande maggioranza fascista o filo-fascista (grazie alla legge Acerbo e ai brogli elettorali) non si sogna affatto di mettere in stato d’accusa il capo del governo, che è anche capo del fascismo.
Poi giunge il momento di respingere l’accusa di avere costituito in Italia una polizia politica segreta come la Ceka comunista: «Si è detto che io avrei fondato una Ceka. Dove? Quando? In qual modo? Nessuno potrebbe dirlo. Veramente c’è stata una Ceka in Russia, che ha giustiziato senza processo, dalle 150.000 alle 160.000 persone, secondo attestano le statistiche quasi ufficiali. C’è stata una Ceka in Russia, che ha esercitato il terrore sistematicamente su tutte le classi borghesi e sui membri singoli della borghesia, una Ceka che diceva di essere la rossa spada della rivoluzione. Ma la Ceka italiana non è mai esistita».
Ovviamente, il chiarimento serve pure a sottolineare cosa avviene in Russia, e quanta differenza corra tra la violenza fascista e la violenza comunista. E poi l’attacco alla secessione dell’Aventino, «secessione anticostituzionale e nettamente rivoluzionaria», presentata come un pericolo per la monarchia: «Un popolo non rispetta un Governo che si lascia vilipendere. Il popolo vuole specchiata la sua dignità nella dignità del Governo, ed il popolo, prima ancora che lo dicessi io, ha detto: basta! La misura è colma! Ed era colma perché? Perché la sedizione dell’Aventino ha sfondo repubblicano».
Il messaggio mussoliniano è chiaro: il blocco, che comprende il popolo italiano, la monarchia, il governo, il parlamento e il partito fascista, è intatto e regge a meraviglia, malgrado il tentativo sovversivo dell’Aventino e di certa stampa antifascista.
E a questo punto un elenco, documentato dalla stampa, di “violenze sovversive” contro i fascisti: «Questa sedizione dell’Aventino ha avuto delle conseguenze perché in Italia oggi chi è fascista rischia ancora la vita! Nei soli mesi di novembre e dicembre undici fascisti sono caduti uccisi, dei quali uno ha avuto la testa schiacciata fino ad essere ridotta un’ostia sanguinosa, e un altro, un vecchio settantatreenne, è stato ucciso e gettato da un muraglione. Poi tre incendî si son avuti in un mese, tre incendî misteriosi nelle Ferrovie: uno a Roma, l’altro a Parma ed un terzo a Firenze. Quindi un risveglio sovversivo su tutta la linea, che vi documento perché è necessario documentare attraverso i giornali di ieri e di oggi: Un caposquadra della Milizia ferito gravemente dai sovversivi. Un conflitto fra carabinieri e sovversivi a Genzano. Un tentativo di assalto alla sede del Fascio a Tarquinia. Un fascista ferito da sovversivi a Verona. Un milite della Milizia ferito in provincia di Cremona. Fascisti feriti da sovversivi a Forlì. Imboscata comunista a S. Giorgio di Pesaro. Sovversivi che cantano «Bandiera rossa» e aggrediscono i fascisti a Monzambano. Nei soli tre giorni di questo gennaio 1925, e in una sola zona, sono avvenuti incidenti a Mestre, Pionca, Valombra: cinquanta sovversivi, armati di fucili, scorrazzano il paese cantando “Bandiera rossa” e fanno esplodere petardi; a Venezia il milite Pascai Mario aggredito e ferito; a Cavaso di Treviso, un altro fascista ferito; a Crespano la caserma dei carabinieri invasa da una ventina di donne scalmanate, un capo manipolo aggredito e gettato in acqua; a Favara di Venezia fascisti aggrediti da sovversivi; a Mestre, a Padova, altri fascisti feriti da sovversivi».
Dopo questo crescendo di atti sovversivi, dopo il fallimento di una politica governativa ispirata alla concordia nazionale, secondo Mussolini rimane una sola strada: opporre alla violenza la forza, opporre alla violenza sovversiva la forza del Governo.
«Voi vedete da questa situazione – conclude Mussolini – che la sedizione dell’Aventino ha avuto profonde ripercussioni in tutto il paese. Ed allora viene il momento in cui si dice: basta! Quando due elementi sono in lotta e sono irreducibili, la soluzione è nella forza. Non c’è stata mai altra soluzione nella storia e non ci sarà mai. Ora io oso dire che il problema sarà risolto. Il Fascismo, Governo e Partito, è in piena efficienza. Signori, vi siete fatte delle illusioni! Voi avete creduto che il Fascismo fosse finito perché io lo comprimevo, che il Partito fosse morto perché io lo castigavo e poi avevo anche la crudeltà di dirlo. Se io la centesima parte dell’energia che ho messo a comprimerlo la mettessi a scatenarlo, oh, vedreste allora…Ma non ci sarà bisogno di questo, perché il Governo è abbastanza forte per stroncare in pieno e definitivamente la sedizione dell’Aventino. L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa; gliela daremo con l’amore, se è possibile, o con la forza se sarà necessario. Voi state certi che nelle 48 ore successive al mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l’area, come dicono. E tutti sappiamo che non è capriccio di persona, che non è libidine di governo, che non è passione ignobile, ma è soltanto amore sconfinato e possente per la Patria».
Questo famoso discorso, al netto dallo stile retorico di allora, è certamente un piccolo capolavoro politico nella patria di Machiavelli. Un piccolo capolavoro che, approfittando del sostanziale fallimento della secessione dell’Aventino “violento e sovversivo”, proclama una nuova stagione politica italiana: una stagione autoritaria, che inesorabilmente precipiterà nella dittatura.
E Mussolini fu di parola, sia nelle strade sia in Parlamento.
Durante il gennaio 1925, sono chiusi 35 circoli politici di opposizione, sciolte 25 organizzazioni definite "sovversive", arrestati 111 oppositori ed eseguite 655 perquisizioni domiciliari.
Il 20 luglio 1925, Giovanni Amendola viene aggredito da un gruppo di uomini armati di bastone, e morirà in Francia. Il 15 febbraio 1926, muore in Francia Piero Gobetti, per le conseguenze di numerose aggressioni subìte in Italia. Nel novembre 1926, avviene un’irruzione squadrista nella casa di Benedetto Croce.
Ma andiamo in Parlamento nel 1925, per assistere alla nascita delle “leggi fascistissime”.
Il 24 dicembre 1925, si accresce il peso politico del capo del governo, sicché la posizione di Mussolini rispetto ai suoi ministri diventa sovraordinata, e gli consente di essere l’unico responsabile di fronte al re, senza più dar conto al Parlamento.
Il 20 gennaio 1926 entra in vigore la legge sulla stampa, per cui i giornali possono essere diretti, scritti e stampati, solo se hanno un direttore responsabile riconosciuto dal Procuratore generale presso la Corte di appello della giurisdizione, dove è stampato il periodico. Inoltre, il Procuratore è tenuto a sentire il prefetto. Per conseguenza il direttore di qualunque giornale dev’essere persona non sgradita al governo, pena l'impossibilità di pubblicare.
La legge del 3 aprile1926 proibisce lo sciopero e stabilisce che soltanto i sindacati "legalmente riconosciuti" possono stipulare contratti collettivi.
Nel 1926, vengono abolite le amministrazioni provinciali e comunali, e al loro posto subentrano delle autorità di nomina governativa.
Nello stesso 1926, viene istituito il confino di polizia.
Ancora nel 1926, viene istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, i cui poteri prevedono la pena di morte.
Ma il fatto più importante del 1926, che istituisce la dittatura fascista in Italia, è il Regio decreto 6 novembre 1926, n. 1848, con cui sono definitivamente soppressi i partiti, giacché si impone ai prefetti di sciogliere qualsiasi partito od organizzazione politica contraria al fascismo.
Nel 1927, viene costituita la polizia politica segreta OVRA (Opera Vigilanza Repressione Antifascismo).
Il 9 dicembre 1928, il Gran Consiglio del Fascismo (presieduto da Mussolini), fin dal 1922 organo del Partito fascista, ora diventa il supremo organo costituzionale del Regno d’Italia («organo supremo, che coordina e integra tutte le attività del regime sorto dalla rivoluzione dell'ottobre 1922»).
E il re? Il re Vittorio Emanuele III condivide ormai le responsabilità della dittatura. Tutte le “leggi fascistissime” portano la sua firma. Senza alcun dubbio, egli risulta storicamente responsabile di aver fornito copertura e tutela al regime dittatoriale in Italia.
Il re è costretto? Forse, secondo la ragion politica. Ma, secondo la coscienza morale, egli non è costretto, perché coacti tamen volunt, perché coloro che sono costretti tuttavia vogliono, e vogliono liberamente. In altri termini, la “costrizione”, o coercizione o coazione, non esiste nel mondo morale, perché ogni attività (morale) è volontà, è libertà, e non già passività.
Per intenderci, facciamo un esempio in forma estrema: immaginiamo un terribile tiranno che impone per legge che tutti i sudditi consegnino i primogeniti per sacrificarli a un dio (al dio Moloch, al dio Stato, al dio Partito, al dio Razza, ecc.). Ebbene, se i sudditi obbediscono o disobbediscono alla legge del tiranno, in entrambi i casi lo fanno volontariamente, liberamente. Infatti, liberamente possono volere di consegnare i primogeniti; e liberamente possono volere di ribellarsi, combattere, e andare a vincere o morire. In ogni caso, rigorosamente parlando, nella sfera morale, si vuole sempre, e sempre liberamente.
E tuttavia, ferme restando tutte le responsabilità politiche e morali di Vittorio Emanuele III, si può dire che egli sottostà all’avvento della dittatura in un duplice significato: da un canto, cioè, egli soggiace alla politica di un Duce che, tra gli anni Venti e Trenta, raggiunge il culmine del successo e del consenso nello Stato, nella piazza, e nello scacchiere internazionale; dall’altro, egli, come una talpa, sta sotto il piano della chiassosa politica dittatoriale, praticando sempre una sua politica sotterranea, prudente, non verbosa, e soprattutto autonoma rispetto alle marce trionfali della politica fascista.
Il re, come una talpa, lavora sotto terra, scava gallerie, in attesa dell’occasione buona per uscire allo scoperto.
Del resto, mai due individui furono così diversi fra loro. Tanto amante di apparire, più che di essere, Mussolini; tanto taciturno, umbratile e ombroso il re. Tanto retorico, istrione e narciso il primo; tanto introverso, misurato e prosaico il secondo.
Indubbiamente, durante la dittatura, il re va a rimorchio della politica mussoliniana, e pare seguire docilmente il carro trionfale del duce, che gli regala qualche titolo come quello di Imperatore d’Etiopia o come quello di Re di Albania. E la coabitazione si fa sempre più difficile: Vittorio Emanuele è re d’Italia e imperatore di Etiopia; ma Mussolini è il fondatore dell’Impero.
In fondo, nell’arrière-pensée di Vittorio Emanuele III c’è tanto disprezzo e tanta ostilità verso Mussolini. Quest’ultimo è ben consapevole del malanimo del re; e perciò nel 1938 si sfoga con Galeazzo Ciano: «C’è voluta la mia pazienza, con questa Monarchia rimorchiata. Non ha mai fatto un gesto impegnativo verso il regime. Aspetto ancora perché il Re ha 70 anni e spero che la natura mi aiuti, e quando alla firma del Re si sostituirà quella meno rispettabile del principe, potremo agire».
Gelosissimo del suo ruolo di Monarca, di Capo dello Stato e delle forze armate, Vittorio Emanuele, pur accettando la dittatura fascista, tiene puntigliosamente a sottolineare in pubblico e in privato la sua “diversità” e la sua superiorità.
Ad esempio, in un’Italia che è ormai una fittissima foresta di saluti romani, Vittorio Emanuele III saluta ancora e sempre militarmente, portando alla fronte la mano destra. E questo gesto controcorrente spicca; ed è un silenzioso ma significativo messaggio, per chi vuol capire, che in Italia esiste ancora il re.
E questo gesto farà imbestialire sia Mussolini sia Hitler, quando nel 1938, in occasione della visita del Führer in Italia, i due dittatori, i due “giganti della storia”, salutano col braccio alzato, mentre quel piccolo testardo roccioso re continua a stare accanto a loro, salutando militarmente e ricordando a tutti che è solo lui il padrone di casa.
E poi, in pubblico e in privato, quel piccolo re si rivolge a Mussolini chiamandolo sempre “eccellenza”, mai “duce”. Il che fa imbufalire un Mussolini che, anche quando parla con se stesso, si dà del “duce”.
In verità, con Mussolini, il re riesce a mantenere solo quei rapporti formali che debbono intercorrere fra il Capo dello Stato e il Capo del Governo.
Troppo diversi sono i due individui, sia per temperamento, sia per tempra caratteriale, sia per formazione culturale, sia per esperienza politica. Allo scapigliato demagogo, che appassionatamente parlava di rivoluzione socialista come ora parla appassionatamente di rivoluzione fascista, si contrappone un re che guarda sempre con simpatia all’Italia liberale. Al duce, che parla tranquillamente in tedesco, si contrappone un re da sempre filobritannico e visceralmente antitedesco, a partire dalla Germania del kaiser Guglielmo II sino alla Germania di Hitler.
D’altronde, anche nella visita di Hitler in Italia, – al tempo in cui gli italiani ascoltano rapiti il giovane Vittorio De Sica che canta “Parlami d’amore Mariù” – il re non fa mistero dei suoi sentimenti antitedeschi e antinazisti. E i nazisti, Hitler in testa, ricambiano di cuore l’ostilità e consigliano a Mussolini di sbarazzarsi di quello sgorbio.
Addirittura il Reichsfuhrer delle SS, Heinrich Himmler, che come gusto estetico è fermo al filo spinato dei campi di sterminio, riesce a disprezzare il palazzo del Quirinale – carico di storia e di arte – perché gli sembra una catacomba!
Comunque sia, nel diario di Galeazzo Ciano troviamo sempre rispetto e ammirazione per Vittorio Emanuele III, che «è un conversatore piacevole e molto interessante».
Addirittura, il 7 gennaio 1938, a pochi mesi dalla visita di Hitler in Italia, Ciano sottolinea la tedescofobia del re: «Il Re mi ha detto di diffidare dei tedeschi: nel passato Berlino è sempre stata la Cancelleria più infida. L'Austria era corretta. Ha lodato l'onestà personale degli uomini liberali: in tanti anni di regno solo due mancarono, un certo Maury e Nunzio Nasi».
E tra l’altro, quel piccolo re, che passerà alla storia come un omuncolo pronto ad avallare qualunque atto di Mussolini, esprime il suo solido giudizio controcorrente su questione di armamenti, criticando «la costruzione delle grandi navi, cui non crede. E che sono troppo esposte all'insidia aerea e sottomarina».
Si vedrà tra pochi anni, nella seconda guerra mondiale, che quel piccolo re non aveva tutti i torti in fatto di armamenti.
Ma, in quel 1938, – quando qualcuno ha il problema del passo di tango e del casquè al suono di “Creola” o di “Tango delle capinere” – pare che uno dei problemi più difficili che assilla il fascismo sia quello del passo di parata, ossia del passo dell’oca o passo romano.
Mussolini lo vuole categoricamente. Il re e l’esercito sono contrari e vi vedono un’invadenza prussiana. E qui il duce si abbandona a scenate alle spalle del piccolo re e, pur d’imporre il passo dell’oca, dà una discutibile e rutilante collocazione storica “romana” all’oca, a fianco della lupa e dell’aquila.
«Il Duce – annota Ciano – reagisce con violenza, e mi ha letto il discorso che pronuncerà domani per spiegare ed esaltare la innovazione [del passo romano]. Poiché pare che anche il Re si sia espresso in senso contrario, il Duce diceva: "Non ho colpa io, se il Re è fisicamente una mezza cartuccia. È naturale che lui non potrà fare il passo di parata senza essere ridicolo. Lo odierà per la stessa ragione per cui ha sempre odiato il cavallo, dato che deve salirvi con la scaletta. Ma la deficienza fisica di un sovrano non è una buona ragione per minimalizzare, come ha fatto, l'esercito di un grande Paese". "Dicono che il passo dell'oca è prussiano. Nient'affatto. L'oca è un animale romano, se è vero che salvò il Campidoglio. Il suo posto è tra l'aquila e la lupa"».
Ad ogni modo, animali a parte, già nel 1937 coesistono una certezza e un’illusione: la certezza è che si va allo scontro con la Francia e la Gran Bretagna; l’illusione è che bisogna prendere per primi l’iniziativa, in modo da colpire l’avversario nel sonno.
«Il Duce è calmo. – scrive Ciano alla vigilia di Natale del 1937 – Mi ha esposto stamani il nuovo programma di armamenti aerei: in giugno costruiremo 300 aeroplani al mese e ne avremo tremila di flotta. Bisogna stringere la cintola ed armarsi. Tutto lascia credere che la lotta sia inevitabile. In tal caso non bisogna perdere il nostro maggiore vantaggio: quello dell'iniziativa».
Qualche grosso dubbio sul potenziale italiano è nutrito da Alberto Pirelli, un grande imprenditore e un abile diplomatico filoinglese, che si preoccupa delle scarse riserve auree italiane. E quando Ciano gli risponde fascisticamente che tra l’oro e il ferro, bisogna scegliere il ferro, Pirelli smorza i bollenti spiriti del nostro ministro degli esteri e gli risponde «Averlo il ferro!»
Nessun dubbio e tanto ottimismo da parte dei militari vicini al fascismo. Il generale Alberto Pariani è ottimista (beato lui!) e considera la primavera del 1939 (!) il periodo più favorevole per l’entrata in guerra. Questo ottimismo del generale Pariani (pronto poi a smentire se stesso) si sposa con gli entusiasmi di chi fa la guerra a tavolino e vince tutto e subito.
«Ho parlato con Pariani – scrive Ciano il 14 febbraio 1938 – delle nostre relazioni militari con la Germania. Premetto che Pariani è convinto della inevitabilità del conflitto con le Potenze occidentali. Considera l'epoca più favorevole a noi la primavera del 1939. Avremo ultimata la preparazione delle scorte di munizioni, oggi scarse per i piccoli calibri, mentre Francia e Inghilterra traverseranno il periodo più acuto di crisi. Pariani crede al successo di una guerra fulminea e di sorpresa. Attacco all'Egitto, attacco alle flotte, invasione della Francia. La guerra si vincerà a Suez ed a Parigi. Gli ho prospettato l'utilità di creare fin d'ora un Comitato segreto di guerra italo-tedesco. È favorevole e, dopo l'allontanamento di Blomberg, lo crede possibile. Ne parleremo col Duce. Ho suggerito di studiare il piano d'invasione della Svizzera per attaccare la Francia. È d'accordo, e crede l'idea buona. Gli ho anche suggerito di far sbarcare, sempre al momento della sorpresa, truppe italiane a Porto Said e a Suez. È facile far coincidere la presenza di trasporti truppe per l'Africa Orientale. Approva e passerà i miei suggerimenti allo studio tecnico».
«Pariani crede al successo di una guerra fulminea e di sorpresa». Da rabbrividire! Purtroppo, di generali italiani come Alberto Pariani ce ne furono molti, prima e durante la seconda guerra mondiale. Ma nessuno, fortunatamente per loro, venne fucilato.
Il 1938 è anche l’anno delle leggi razziali in Italia. Non possiamo restare indietro alla Germania in nessun campo. Figuriamoci se non li scimmiottiamo in questa demoniaca politica antisemita, che ci abbassa a livelli barbarici in campo culturale, morale, politico, economico e sociale.
Anche in questo caso Vittorio Emanuele III entra in rotta di collisione con Mussolini. In diverse occasioni, infatti, il re gli esprime la sua contrarietà all’antisemitismo, in generale, e alle leggi razziali, in particolare, ottenendo soltanto uno sprezzante diniego dal duce che ormai è all’apice della popolarità in Italia e della soggezione verso la Germania.
«Trovo il Duce indignato col Re. – annota Ciano il 28 novembre 1938 – Per tre volte, durante il colloquio di stamane, il Re ha detto al Duce che prova una "infinita pietà per gli ebrei". Ha citato casi di persone perseguitate, e tra gli altri il generale Pugliese che, vecchio di ottant'anni e carico di medaglie e ferite, deve rimanere senza domestica. Il Duce ha detto che in Italia vi sono 20.000 persone con la schiena debole che si commuovono sulla sorte degli ebrei. Il Re ha detto che è tra quelli. Poi il Re ha parlato anche contro la Germania per la creazione della quarta divisione alpina. Il Duce era molto violento nelle espressioni contro la Monarchia. Medita sempre più il cambiamento di sistema. Forse non è ancora il momento. Vi sarebbero reazioni. Ieri a Pesaro il comandante del Presidio ha reagito contro il Federale che aveva dato il saluto al Duce e non quello al Re».
Per ben tre volte quel piccolo re, pur non essendo abituato a parlare troppo, manifesta i suoi sentimenti di pietà per gli ebrei. E per commuovere Mussolini, cita l’esempio del vecchio generale Pugliese. Per risposta, il duce insolentisce così: “in Italia vi sono 20.000 persone con la schiena debole che si commuovono sulla sorte degli ebrei”. E il re gli risponde con fierezza che egli sta tra quelli con la schiena debole.
Ma il re firma le leggi razziali, pur sapendo che lo Statuto Albertino, vanto dei Savoia, aveva concesso i diritti civili e politici ai cittadini del Regno, compresi quelli di religione ebraica.
Ora, una volta promulgate le leggi, le discriminazioni colpiscono gli ebrei italiani nei loro diritti, nella loro libertà e dignità, senza ancora giungere alla reclusione e alla eliminazione fisica dei soggetti non ariani, almeno finché il Regno d'Italia rimane integro e relativamente autonomo dal Reich.
L'estremo ignobile passo sarà compiuto solo con la proclamazione della Repubblica di Salò.
Nel Regno del Sud, invece, Vittorio Emanuele III potrà finalmente provvedere, già nel 1944, alla cancellazione delle leggi razziali.
Leggi impopolari, odiose e odiate, quelle leggi razziali che caddero sulla testa degli italiani fondamentalmente antirazzisti. E ciò provoca perplessità anche in campo fascista, se stiamo a ciò che aveva scritto Ciano il 3 dicembre 1937: «Gli ebrei mi caricano di anonime ingiuriose accusandomi di aver promesso a Hitler la loro persecuzione. Falso. Mai i tedeschi ci hanno parlato di questo argomento. Né io credo che a noi convenga scatenare in Italia una campagna antisemita. Il problema da noi non esiste. Sono pochi e salvo eccezioni, buoni. E poi gli ebrei non bisogna mai perseguitarli come "tali". Ciò provoca la solidarietà di tutti gli ebrei del mondo. Si possono colpire con tanti altri pretesti. Ma, ripeto, il problema da noi non esiste. E forse in piccole dosi gli ebrei sono necessari alla società come il lievito è necessario alla pasta del pane».
Ma Mussolini tira dritto, aggredendo chi osa manifestare critiche o perplessità. E riaffiora così il vecchio socialista antiborghese, che vede nella borghesia un covo di resistenza antifascista e antirazzista. E decide di scatenare, entro l’ottobre 1938, la “terza ondata rivoluzionaria” del fascismo antiborghese, istituendo il campo di concentramento oltre al vecchio confino di polizia.
«Mussolini – scrive Ciano il 10 luglio 1938 – è molto irritato contro queste frazioni di borghesia pronte sempre a calarsi le brache. Parla di una terza ondata, da farsi in ottobre, poggiando particolarmente sulle masse operaie e contadine. Intende creare il campo di concentramento, con sistemi più duri del confino di polizia. Una prima avvisaglia del giro di vite sarà data dai falò degli scritti ebraici, massoneggianti, francofili. Scrittori e giornalisti ebrei saranno messi al bando di ogni attività. Del resto, tutto ciò è annunciato nella prefazione del Duce negli Atti del Gran Consiglio. La rivoluzione deve ormai incidere sul costume degli italiani. I quali, bisogna che imparino ad essere meno "simpatici", per diventare duri, implacabili, odiosi. Cioè: padroni».
E in Italia non c’è solo il re ad avere scrupoli sull’antisemitismo. C’è anche il papa. L’energico Pio XI – il pontefice che qualcuno conosce solo per la frase “l’uomo della Provvidenza” – aveva avuto il coraggio di protestare contro il neopaganesimo nazista con la famosa enciclica del 10 marzo 1937 Mit brennender Sorge, volutamente in tedesco, che venne letta in tutte le chiese della Germania.
In quella storica enciclica del 10 marzo 1937 si legge: «Se la razza o il popolo, se lo Stato o una sua determinata forma, se i rappresentanti del potere statale o altri elementi fondamentali della società umana hanno nell’ordine naturale un posto essenziale e degno di rispetto; chi peraltro li distacca da questa scala di valori terreni, elevandoli a suprema norma di tutto, anche dei valori religiosi e, divinizzandoli con culto idolatrico, perverte e falsifica l’ordine, da Dio creato e imposto, è lontano dalla vera fede in Dio e da una concezione della vita ad essa conforme. [...] Solamente spiriti superficiali possono cadere nell’errore di parlare di un Dio nazionale, di una religione nazionale, e intraprendere il folle tentativo di imprigionare nei limiti di un solo popolo, nella ristrettezza etnica di una sola razza, Dio, Creatore del mondo, re e legislatore dei popoli, davanti alla cui grandezza le nazioni sono piccole come gocce in un catino d’acqua».
Con ciò il neopaganesimo nazista – la religione barbarica dei moderni discendenti di Alarico e di Genserico – era apertamente condannata dal successore di Pietro.
Ora, di fronte alla politica antisemita del fascismo, Pio XI assume una posizione altrettanto coraggiosa, chiara e dura contro le leggi razziali italiane. In due discorsi pubblici, tenuti a breve distanza e subito dopo la proclamazione delle leggi fasciste in difesa della razza (il primo il 15 e il secondo il 28 di luglio 1938), papa Ratti si schiera in modo netto contro il Manifesto degli scienziati razzisti (15 luglio 1938), lamentando che l'Italia, sul razzismo, imita “disgraziatamente” la Germania nazista (28 luglio 1938).
Addirittura, nel maggio del 1938, quando Hitler visita Roma, Pio XI dà un segnale di protesta inequivocabile: egli lascia Roma e si reca a Castel Gandolfo, dopo aver fatto chiudere i Musei Vaticani e spegnere le luci del Vaticano. Nell'occasione, L'Osservatore Romano non fa alcun accenno alla visita di Hitler nella capitale, e scrive: «Il Papa è partito per Castel Gandolfo. L'aria dei Castelli Romani gli fa molto bene alla salute».
E in seguito, riferendosi alle numerose croci uncinate che Mussolini aveva fatto esporre a Roma in omaggio a Hitler, Pio XI dichiarerà: «È tra le tristi cose questa: l'inalberare a Roma, il giorno della Santa Croce, l'insegna di un'altra croce che non è la croce di Cristo».
Chissà cosa avrebbe detto oggi papa Ratti, sulle gioiose sfilate di simboli non proprio cristiani che è dato osservare in certe chiese!
Ad ogni modo, Mussolini incassa malamente i colpi del papa e minaccia sfracelli, ribadendo che la questione razziale è fondamentale dopo la conquista dell’Impero.
«Il Duce – annota Ciano in data 8 agosto 1938 – è molto montato sulla questione della razza e contro l'Azione Cattolica. Ordina che tutti gli ebrei vengano eliminati dai ruoli della diplomazia. […] È violento contro il Papa. Dice: “Io non sottovaluto le sue forze, ma lui non deve sottovalutare la mia. L’esempio del 1931, insegna. Basterebbe un mio cenno per scatenare tutto l'anticlericalismo di questo popolo, il quale ha dovuto faticare non poco per ingurgitare un Dio ebreo”. Mi ripete la sua teoria di cattolicesimo-paganizzazione del cristianesimo».
Ma Pio XI non arretra di un millimetro e condanna nuovamente il razzismo, costringendo il duce a lanciare ancora minacce e a considerare la religione con le categorie mentali dell’antico socialista ateo e arruffone.
Per avere un’idea, leggiamo la pagina del 22 agosto 1938 del Diario di Galeazzo Ciano: «Sembra che il Papa abbia fatto ieri un nuovo discorso sgradevole sul nazionalismo esagerato e sul razzismo. Il Duce, che ha convocato per questa sera Padre Tacchi Venturi, si propone di dare un ultimatum: “Contrariamente a quanto si crede, ha detto, io sono un uomo paziente. Bisogna però che questa pazienza non mi venga fatta perdere, altrimenti reagisco facendo il deserto. Se il Papa continua a parlare, io gratto la crosta agli italiani e in men che si dica li faccio tornare anticlericali. Al Vaticano, sono uomini insensibili e mummificati. La fede religiosa è in ribasso: nessuno crede a un Dio che si occupa delle nostre miserie. Io disprezzerei un Dio che si occupasse delle vicende personali dell'agente di Polizia fermo all'angolo del Corso”».
A fine agosto 1938, sulle due sponde del Tevere sembra tornare il sereno. E l’accordo si trova anche in base alla convergenza fra i moderati del fascismo e i moderati del Vaticano. E su questa convergenza si spettegola a proposito del caratteraccio (chi ha carattere, ha sempre un caratteraccio!) di Pio XI.
Ecco un esemplare colloquio, del 26 agosto 1938, tra il cardinale Francesco Borgongini Duca e il ministro degli esteri Galeazzo Ciano: «Borgongini Duca, d'ordine del Papa, mi viene a parlare del comunicato con cui, almeno per ora, si mette fine all'attrito tra Partito e Azione Cattolica. Lo stuzzico e si sfoga sul conto del Papa. Dice che ha un pessimo carattere, autoritario e quasi insolente. In Vaticano tutti ne sono terrorizzati. Lui stesso, quando deve entrare nella stanza del Pontefice, trema. Tratta tutti con alterigia: anche i più illustri porporati. Il Cardinale Pacelli, ad esempio, quando va a rapporto, deve, come un piccolo segretario, prendere nota sotto dettatura di tutte le istruzioni. Si è rimesso bene in salute. Mangia poca carne e frutta cotta. Beve vino rosso in quantità limitata. Fa abbastanza moto in giardino. Ha 82 anni, continua a tenere il governo della Chiesa anche nei più piccoli particolari. Ripete sempre: "Governerò fino al Conclave"».
Senza dubbio, è un osso duro il papa Pio XI. E – potenza delle date – bisognerebbe ricordare che, se nel 1922 Mussolini arrivò a Roma per formare il governo, nello stesso 1922 il cardinale di Milano Achille Ratti arrivò a Roma per essere eletto papa Pio XI.
Probabilmente, il 1922 fu un’annata di vino forte. E in Vaticano, per giunta, il vino è sempre santo!
Al Quirinale, Vittorio Emanuele III tesse incessantemente la sua tela anti-tedesca in riferimento alla questione dell’Austria e a quella dell’Alto Adige. Sulle mire di Hitler per annettersi l’Austria, Mussolini si accorge che i tedeschi non lo avvertono mai preventivamente, ma adottano la tattica del fatto compiuto e dell’ipocrita comunicazione post factum.
«Il Duce stamani – annota Ciano il 18 febbraio 1938 – era piuttosto irritato con la Germania per il modo con cui la questione con l'Austria è stata condotta. Intanto i tedeschi avrebbero dovuto avvertirci: invece nemmeno una parola. Poi, se invece di fermarsi sulle posizioni raggiunte, pensassero di arrivare al vero e proprio Anschluss, si determinerebbero delle condizioni generali del tutto diverse da quelle in cui l'Asse fu costituito e che richiederebbero un riesame della situazione».
E invece, dopo circa un mese dalla annotazione di Ciano, l’Anschluss – ossia l’annessione dell’Austria al Reich nazista, la minacciosa realizzazione della “Grande Germania”, sarà una durissima realtà il 12 marzo 1938.
E a Mussolini non resterà che inghiottire ancora una volta (e non sarà l’ultima!) l’indigeribile e amaro boccone propinatogli da Hitler.
Si aggiunga che, una settimana prima dell’Anschluss, in un telegrafico appunto di Ciano del 5 marzo 1938, Vittorio Emanuele III torna sulla tradizionale “lealtà” dei tedeschi: «Il Re mi ha nuovamente parlato male di Berlino e mi ha detto di diffidare dei tedeschi, che, a suo avviso, mancano sempre di lealtà e sono mentitori costanti».
E già in aprile, dopo l’annessione dell’Austria alla Germania, si ripresenta puntualmente il problema dei cittadini di lingua tedesca in Alto Adige, i quali si sentono appoggiati da Hitler e fanno la voce grossa col regime italiano e minacciano l’annessione alla Germania.
Anche in questo caso, Mussolini, al di là delle sfuriate verbali e fra le pareti di una stanza, si accorge che i rapporti con i tedeschi si sono ormai capovolti. Egli era partito da una posizione di leadership nei confronti di Hitler, che lo ammirava e imitava, ora invece si sente man mano sempre più emarginato nelle decisioni che i nazisti prendono a sua insaputa, riducendolo al ruolo di comodo comprimario.
«Col Duce – annota Ciano il 24 aprile 1938 – abbiamo ancora lungamente parlato della questione Alto Adige. È giunta, tramite Magistrati, la risposta Göring, che non mi sembra molto esplicita. Più tardi il Duce mi ha telefonato: "Ho chiarito le mie idee in materia. Se i tedeschi si portano bene e sono rispettosi sudditi italiani, potrò favorire la loro cultura e la loro lingua. Se pensano però di spostare di un solo metro il palo di frontiera, sappiano che ciò non avverrà senza la più dura guerra, nella quale coalizzerò contro il germanesimo tutto il mondo. E metteremo a terra la Germania per almeno due secoli"».
«Se i tedeschi si portano bene», in caso contrario «coalizzerò contro il germanesimo tutto il mondo. E metteremo a terra la Germania per almeno due secoli». A rileggere queste parole, ci si accorge che ormai è patetica la condizione di Mussolini, il quale minaccia di mettere “a terra la Germania per almeno due secoli”, quando sa, e i fatti glielo confermano, che non esiste possibilità di confronto fra il potenziale bellico tedesco e quello italiano.
Sono definitivamente tramontati gli eroici anni Venti, in cui tutto il mondo cantava bellissime canzoni come “Amapola” o “Ramona”, e in Italia le camicie nere cantavano “Giovinezza”. Ora a Palazzo Venezia si sentono cantare soprattutto gli squallidi adulatori, che sciolgono inni a Mussolini, che danno sempre ragione al duce. E Mussolini, che crede ancora di possedere una volontà di ferro, è ormai ridotto alla caricatura di se stesso: un ambizioso velleitario, sempre meno credibile.
Quel piccolo re, intanto, continua caparbiamente nella sua sotterranea operazione antitedesca. Tra l’altro, Vittorio Emanuele III sa essere, quando vuole, un amabile conversatore e una miniera di aneddoti interessanti. Addirittura certi giudizi del re, su uomini passati alla storia, non sono affatto irrilevanti.
Ce ne offre un esempio Ciano, l’8 marzo 1938, riferendoci il giudizio del monarca sul ministro degli esteri, il catanese Antonino di San Giuliano, e su Giolitti: «Il Re mi ha parlato degli uomini politici dell'ante marcia: elogia soprattutto San Giuliano. Di Giolitti dice che era un formidabile conoscitore di fatti e interessi privati di tutti gli italiani e specialmente del mondo parlamentare. Una specie di sindaco di piccolo paese. Ma era la sua forza per governare con l'intrigo e la corruzione, pure essendo personalmente onesto. Il Re ne nega però ogni vera grandezza».
In futuro, il re tornerà a parlare di Giolitti, rigirando il coltello sulla giolittiana astuzia di uomo pratico, di conoscitore e controllore dei singoli parlamentari (un precursore di Andreotti!), e sulla sua notevole ignoranza.
«Sua Maestà – scriverà Ciano il 25 gennaio 1943 – aveva un gran raffreddore, voce rauca e tosse. Si è tenuto piuttosto sulle generali e non ha voluto raccogliere accenni alla situazione. Anzi ha fatto dell'ottimismo d'ufficio, senza lasciarsi sfuggire l'occasione di qualche puntata contro i tedeschi. Ha parlato a lungo di Giolitti, esaltandone la callidità e l'ignoranza. Maneggiava il parlamento come nessuno al mondo: teneva un libro di cui ogni pagina era dedicata a un deputato e vi scriveva vita, morte e miracolo. Non ne esisteva uno solo che, dopo una lunga osservazione, potesse sfuggire al ricatto. Il Re lesse personalmente la pagina che riguardava Eugenio Chiesa, facilmente minacciabile a causa di un vecchio fallimento. Per provarne l'ignoranza, Sua Maestà ha raccontato che quando propose a Giolitti di fare senatore Michetti, domandò chi fosse e poi telegrafò al Prefetto di Napoli per avere notizie di “un certo Michetti”».
Per intenderci, quel “certo Michetti” era il pittore Francesco Paolo Michetti, una celebrità internazionale, amico di Gabriele D’Annunzio e del grande musicista Francesco Paolo Tosti. Basti pensare che nel 1878, quando Michetti stava per lasciare l’Italia e andare in Giappone per insegnare all’Accademia di Tokyo, il re Umberto I intervenne ed evitò la partenza del pittore. Insomma, non tutto andava bene nell’Italietta ricca di emigranti poveri e analfabeti, ma qualche cervello non lo lasciavano scappare.
Ma torniamo al 1938 e alla difficile diarchia fra Corona e Regime. Il 2 aprile 1938, la Camera e il Senato approvano l’istituzione del titolo di Primo Maresciallo dell’Impero. La legge ha solo due articoli. Il secondo recita: «Tale grado è conferito a Sua Maestà il Re Imperatore e a Benito Mussolini, Duce del Fascismo».
Ovviamente, per Vittorio Emanuele III è un duro colpo alle sue prerogative di re, che per Statuto è il capo supremo delle forze armate; per Mussolini, invece, è un passo avanti nell’accentramento di tutti i poteri politici e militari.
Il re reagisce energicamente. In un primo tempo si rifiuta di firmare la legge, anche perché non ne era stato preventivamente informato e le modalità di approvazione parlamentare erano alquanto irrituali (basti pensare che l'intero iter di approvazione da parte delle due Camere si svolse nella sola giornata del 30 marzo 1938. Un vero e proprio blitz!).
La questione è sottoposta, per un parere, all'allora Presidente del Consiglio del Regno, il giurista Santi Romano, che ritiene legittima l'istituzione del grado e la sua attribuzione al Monarca e al Capo del Governo.
Tutto pienamente legale! Roma locuta, anzi Santi Romano locutus, causa finita est .
Insomma, il vecchissimo adagio “fatta la legge, trovato l’inganno” si può sempre capovolgere così: “fatto l’inganno, trovato il giurista”. E il fascismo non fu il primo, e non sarà l’ultimo, a capovolgere quel proverbio in suo favore.
Sul disinteressato ed equo parere del «pusillanime opportunista» (così lo chiamerà il re) professor Santi Romano (che umanamente tiene famiglia, e tiene ancor di più al suo posto di Presidente del Consiglio del Regno) Vittorio Emanuele III nutre forti dubbi.
E soprattutto intende lanciare un messaggio a tutti i corpi dello Stato, affinché si sappia che, per il re, questo è l’ultimo “smacco” inflitto alla Corona: «I professori di diritto costituzionale, specialmente quando sono dei pusillanimi opportunisti, come il professor Santi Romano, trovano sempre argomenti per giustificare le tesi più assurde: è il loro mestiere; ma io continuo ad essere della mia opinione. Del resto non ho nascosto questo mio stato d'animo ai due presidenti delle Camere, perché lo rendessero noto ai promotori di questo smacco alla Corona, che dovrà essere l'ultimo».
In altri termini, anche dopo il giudizio equilibrato e spassionato (si fa per dire) del professor Santi Romano, il re ingoia il rospo, ma resta fermo sulla sua posizione nettamente critica.
Lo stesso giorno dell’approvazione della legge sul Maresciallato dell’Impero, il 2 aprile 1938, leggiamo qualche nota di Ciano sulla polemica e sull’animus di Mussolini, che mal sopporta un re che, a sua volta, mal sopporta di essere scavalcato e deriso: «La questione del Maresciallato dell'Impero ha code. Pare che a Casa reale si sia parlato della illegalità della cosa. Mussolini ha fatto richiedere un parere al Consiglio di Stato [al “pusillanime opportunista” prof. Santi Romano!]: tutto pienamente legale. Lo ha mandato al Re con una lettera molto secca. Mi ha detto: "Basta. Ne ho le scatole piene. Io lavoro e lui firma. Mi dispiace che quanto avete fatto mercoledì sia stato perfetto dal punto di vista legale". Ho risposto che potremo andare più in là alla prima occasione. Questa sarà certamente quando alla firma rispettabile del Re si dovesse sostituire quella meno rispettabile del Principe. Il Duce ha annuito e, a mezza voce, ha detto: "Finita la Spagna, ne parleremo..."».
Ad ogni modo, il re è nerissimo. Mentre Mussolini è raggiante, perché ora potrà mostrare il suo nuovissimo grado di Primo Maresciallo dell’Impero al suo amico-rivale Hitler che sta per giungere in Italia.
(continua)